Loris Zanatta

Rischi in agguato/ I romantici della piazza stiano attenti ai balconi

di Loris Zanatta
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Lunedì 17 Giugno 2019, 00:00
Tornano le piazze? Le piazze colme di gente, gli slogan cantati in coro, le bandiere al vento? Il sudore, il caos, la gioia, la complicità della folla? Magari qualche legnata col nemico o la polizia? Da Hong Kong a Caracas, da Milano a Brasilia, a chissà quanti altri posti nel mondo, immensi spazi pubblici si colmano di manifestanti: da che mondo e mondo, sono immagini che scaldano cuori e gonfiano i petti. Per chi è cresciuto prima di internet, la reazione sorge spontanea: che lucciconi agli occhi, quanti ricordi, che gran festa. Volete mettere con le “piazze virtuali”, così gelide, anonime, tetre? Con le “piazze pulite” dentro gli schermi televisivi, sempre le stesse facce, le stesse parole? Viva la piazza!

Oppure no? O non tanto? Meglio evitare le nostalgie degli anziani, quelle in cui prima era sempre meglio di ora. Viviamo un’epoca nostalgica; sballottata tra spinte e rinculi, la storia ne è colma. Tante, tali e così vorticose sono le trasformazioni del nostro mondo, da indurre tanti a idealizzare quello passato, a scambiare per domani ciò che invece era ieri: decrescite felici, democrazie “popolari”, feste comandate, precetti morali; e la piazza d’un tempo, perché no: viva la retorica della democrazia antica, dello “stare insieme”, dell’“identità”; che commozione.

Già: la piazza è un mito tentatore; un mito romantico al cui fascino per una certa sinistra è dura resistere, nella cui retorica è facile cadere. Vale forse la pena rifletterci. Non perché la piazza sia davvero tornata; non se n’era mai andata! 

Una piazza legittima è la piazza di chi in pace rivendica qualcosa di concreto: un diritto, una riforma, un principio; come ad Hong Kong: no alle estradizioni. La folla non è una massa indistinta, un agglomerato di fedeli pronti a intonare salmi a un capo e giurare obbedienza a una fede: lasciata la piazza, tornano i cittadini. Bella è anche la piazza colmata da chi non ha dove andare per farsi udire: quella venezuelana, per dirne una. L’individuo si fa gruppo per recuperare il diritto di essere individuo: libertà, elezioni, diritti.
 
La piazza populista, per chiamarla in qualche modo, è ben altra cosa: la colma il “popolo” dei fedeli. Ha mille volti, ma un tratto comune: il populismo esprime nostalgia di unanimità, rivendica il monopolio di un’identità primigenia, di una virtù perduta. Poco importa che quel “popolo” sia un’invenzione; e poco cambia che quella piazza invochi la nazione o la giustizia, l’onestà o l’etnia: la sua pressione disprezza la mediazione politica in nome della “superiorità morale” del suo “popolo”; quel che i partiti, il parlamento, la legge, l’“establishment” ostacolano, “il popolo” se lo prende; è la piazza dei gilet gialli, dei chavisti, dei sovranisti, dei pauperisti. Ciò facendo, elevano il loro “popolo” a tutto il “popolo”, a “popolo mitico”, l’unico davvero puro e legittimo. 

Tale piazza, è una piazza identitaria: intorno a qualsiasi tema, sia esso uno scandalo, un’opera pubblica, un diritto civile, sviluppa una fede, un esercito di fedeli pronto a servirla, una narrazione epica per convertire gli eretici: quella del “popolo” immacolato vessato dalla “élite” corrotta. La piazza si trasforma così in entità omogenea, in organismo dotato di anima, in tribù di devoti di una nuova Chiesa che promette l’espiazione dei peccati e la terra promessa; la storia, per quelle piazze, è un’eterna lotta tra bene e male, santi e peccatori. Perciò la piazza populista è così messianica; perciò ha banalizza la complessità del mondo riducendola a due poli opposti; perciò si crea nemici demoniaci contro cui scagliare la furia redentiva del “popolo”: “fascisti”, “comunisti”, “neoliberali” immaginari. Sciolta la piazza, i fedeli non tornano cittadini comuni: s’ergono ad apostoli, si dedicano a convertire. Intanto, si può star certi, una piazza uguale e contraria starà crescendo poco più in là, pronta a ritorcere contro la prima gli stessi strumenti.

La piazza come luogo di culto dell’identità è un esercizio legittimo ma nefasto: inibisce il dibattito a vantaggio del rito plebiscitario; ingabbia le opinioni a vantaggio delle convinzioni; banalizza i problemi, inscatola gli individui, innesca escalation tra identità irriconciliabili. Spesso crea beffarde illusioni: piazze piene, urne vuote, una vecchia storia. Col mito romantico della piazza ci andrei cauto: le piazze sono spazi aperti, ma su di esse affacciano un sacco di balconi.
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