Paul Schrader, “Taxi Driver” e il suo Travis a Roma

Il regista e sceneggiatore Paul Schrader
di Leonardo Jattarelli
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Mercoledì 12 Giugno 2019, 22:28
Ha scritto la sceneggiatura di Taxi Driver in dieci giorni. Era caduto nell’abisso anche lui, come il suo Travis Bickle, un disperato, «che cerca disperatamente di sentirsi vivo». Paul Schrader, oggi un signore corpulento e ombroso di 72 anni, all’epoca del film “bibbia” di Martin Scorsese ne aveva appena 29 e bussava alla porta dei produttori della cosiddetta “Nuova Hollywood” già da qualche anno «ma all’epoca di Taxi Driver avevo una gran voglia di suicidarmi» ha raccontato.

Schrader, che sarà ospite due giorni a Roma alla Cervelletta e a Trastevere in Piazza San Cosimato venerdì 14 e sabato 15 in un prezioso incontro organizzato dai Ragazzi del Cinema America, avrà modo di raccontare inferno e paradiso di una pellicola “cult” che ha disegnato l’infernale parabola del pistolero solitario Robert De Niro nell’America Anni ‘70 non troppo diversa, anzi assai somigliante a quella attuale della frontiera dai fili spinati, dei Muri, della condanna del “diverso”, dell’apologia del vincente e dell’inabissamento del negletto firmata Donald Trump.


Schrader racconterà la sua educazione calvinista, il senso del peccato che ha sempre pervaso la sua infanzia, l’assillo della religione e l’inizio della sua visione oscura del mondo. Quando qualcuno gli chiese perché fosse da sempre interessato alla narrazione del lato infernale dell’America, rispose: «La domanda è posta male. Dovrebbe chiedere come mai agli altri cineasti non interessa. La mia risposta è che a me interessa l’America. E se a uno interessa l’America vera, beh, il suolo delle vera America è impregnato di parecchio sangue».
Non è un caso, quindi, che quando vide il terzo film di Scorsese, Mean Streets, ne rimase folgorato. E gli tornò in mente, forse, quel suo primo tentativo di sceneggiatura, sempre fallito, dal titolo “Pipeliner”, dove aveva immaginato di un uomo malato che torna a casa nel Michigan per trovare un po’ di solidarietà ma alla fine butterà all’aria le vite di tutti quelli che lo circondano. Eccolo, in nuce, il Travis Bickle di “Taxi Driver”. 

Chi ha avuto la fortuna (e per chi vuole è sempre possibile acquistarlo) di leggere il fantastico libro di Geoffrey Macnab “Taxi Driver, storia di un capolavoro” (ed. Minimun Fax) potrà entrare con tutta l’anima dietro le quinte di quel capolavoro del ‘76, quando Paul Schrader si era appena rimesso su da un’ulcera gastrica dovuta al suo alcolismo e al suo vagabondare notturno in ogni angolo di New York City.

«La sceneggiatura di Taxi Driver - disse ricordando quei giorni - mi è balzata addosso come un animale». La storia di un martire che viaggia col suo taxi in cerca di una qualsiasi redenzione da peccati non commessi, un bisogno di espiazione mai spiegato se non con quella lucida follia che si insinua in chi si sente escluso, solo, ai margini, respinto. Travis Bickle era un’ombra calpestabile.




L’altra ombra destinata al sudiciume e alla violenza della sopraffazione, nel film, avrà il nome di Iris, la bambina prostituta interpretata dalla poco più che adolescente Jodie Foster. Schrader ne aveva conosciuta una realmente, si chiamava Garth Avery e portava gli occhialoni da sole come Iris. Lo scrittore Paul si ispirò a lei e la fece apparire di sfuggita anche nel film: è la ragazzina amica di Iris che prende per il braccio l’indifesa Jodie Foster quando Travis sta quasi per investirla. 


Nell’incontro romano, Paul Schrader sicuramente parlerà anche delle numerose ispirazioni letterarie per la sceneggiatura di Taxi Driver, da “Memorie del sottosuolo” di Dostojevskij al cinema di Bresson e di Peckinpah alla pittura di Hieronymus Bosch...e forse accennerà ai numerosi parallelismi con l’altro capolavoro firmato da lui che arriverà quattro anni dopo, nel 1980, sempre diretto da Scorsese: Toro scatenato, sulla vita del pugile Jack La Motta. 
Travis come Jack davanti ad uno specchio nel momento della debacle. Il primo, preparandosi al “martirio”, il secondo nel suo camerino prima di rientrare in scena a sparare battute nel suo night club. Imbolsito, ripiegato. L’ombra triste e abbandonata del grande campione. «Me li ricordo ancora gli applausi, me li sento ancora nelle orecchie, e me li porterò dietro per tutta la vita. Mi ricordo una sera… levai l’accappatoio e cascò il mondo: m’ero scordato i calzoncini. Ricordo tutti i k.o. e tutti i ganci, tutti i jab: è il sistema peggiore per fare una bella cura dimagrante. La mia non è stata una vita squallida: anch’io ho avuto… Ma mi farebbe piacere sentirmi applaudire quando recito, come fate con Laurence Olivier quando recita Shakespeare: “un cavallo, un cavallo”. “Il mio regno per un cavallo”… Sono sei mesi che non ne becco uno! Ma io non sono Olivier, anche se mi farebbe piacere. E poi lo vorrei vedere sul quadrato a recitare: se con Sugar si misurasse, chi sa quante ne pigliasse! Per cui datemi un’arena giacché il Toro si scatena, perché oltre al pugilato sono attore raffinato! Questo è spettacolo!».














 
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