Napoli, a torso nudo e scalzo per due ore dietro le sbarre: vergogna in Tribunale

Napoli, a torso nudo e scalzo per due ore dietro le sbarre: vergogna in Tribunale
di Leandro Del Gaudio
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Venerdì 7 Giugno 2019, 23:00 - Ultimo aggiornamento: 8 Giugno, 22:48
Se ne sta lì seduto con le braccia rannicchiate, sembra infreddolito per l’aria condizionata sparata dai condizionatori del Tribunale. Indossa un paio di jeans e basta: ha i piedi scalzi e il torso nudo, il volto ferito all’altezza della tempia e deve difendersi da una sfilza di accuse che lo tengono in cella. Solo che a fare notizia non sono le ipotesi che gli vengono mosse (resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e danneggiamento aggravato), ma il modo in cui viene tradotto di fronte alla giustizia italiana: dinanzi al pubblico di avvocati, magistrati e cancellieri, al cospetto di quella frase che campeggia in tutti i Tribunali (la legge è uguale per tutti), di fronte alle parole che servono a ricalcare principi cardine della Costituzione e che impongono alla giustizia di rimuovere ogni discriminazione razziale, sociale o religiosa.

Sta lì con le braccia conserte, l’uomo nero. Si guarda intorno, quasi stupito per lo stupore con cui viene messo a fuoco da passanti e addetti ai lavori. Venerdì mattina, aula 214, dura quasi due ore la storia del detenuto scalzo e seminudo. È nato nel 1984, si chiama Ricciard Unucoru, ha un passaporto nigeriano in tasca. È un ospite indesiderato del nostro Paese, dal momento che è privo di permesso di soggiorno, viene ritenuto pericoloso, anche alla luce di quanto commesso due giorni fa, all’interno dell’ufficio immigrazione: ha preso a calci e pugni gli agenti, tanto da costringere ben undici poliziotti a bloccarlo e a tradurlo in cella. Un soggetto pericoloso, da espellere, visti anche i recenti dispositivi in materia di immigrazione, destinato al centro di accoglienza di Bari, da dove sarebbe stato poi riconsegnato alle autorità nigeriane. Storia ordinaria, qui nel popolo dei processi per direttissima, che ieri si è trasformata però in un boomerang per la giustizia italiana.

Brutto spot in Tribunale. Sono le undici e trenta del mattino, quando il nigeriano viene tradotto in manette in aula. Scalzo e a torso nudo. C’è una penalista che si indigna e urla agli agenti «che non siamo nel film di Kunta Kinte, ma in un paese civile», mentre viene fatto accomodare nella gabbia dell’aula di giustizia. Processo per direttissima, giudice Luca Purcaro, che è però in camera di consiglio a scrivere una sentenza per un altro imputato (fatti di droga), mentre a rappresentare la giustizia italiana c’è una vpo, una viceprocuratrice onoraria, come spesso accade sola e al cospetto di una galleria umana quanto meno problematica. Indignazione, smarrimento alla vista del detenuto seminudo, mentre la foto dell’uomo nero in gabbia corre sui social media. Eppure nessuno si muove, forse per il temperamento violento del detenuto che - spiegano gli agenti - nel corso delle ore precedenti si era finanche strappato i vestiti di dosso. Chiarisce un poliziotto in aula: «Li vede quei jeans? Glieli abbiamo forniti noi, questa notte si è strappato di dosso ogni cosa». Ma basta questa spiegazione a giustificare la mortificazione di una persona in un luogo deputato a far rispettare le regole? 

Interviene il presidente del Tribunale Ettore Ferrara: «Non posso esprimere un giudizio, se non ho una relazione completa su quanto avvenuto. In linea generale posso dire che è stato comunque sbagliato tradurre una persona seminuda in un’aula di Tribunale, in spregio alle più elementari forme di rispetto della dignità umana, sia o meno un soggetto problematico; va dato comunque atto che le stesse forze di polizia hanno poi provveduto a portare una maglietta al detenuto». 

Ed è questo il secondo aspetto della storia. Già perché a comprare la maglietta al cittadino nigeriano, ci hanno pensato gli stessi agenti arrivati in aula per verbalizzare la resistenza del giorno prima. Lo hanno visto lì accovacciato e scalzo in gabbia e non hanno pensato ai pugni e ai calci ricevuti per immobilizzarlo, ma gli hanno comprato una tshirt grigia, che gli viene consegnata tra le grate della gabbia, sempre e comunque in un’aula di giustizia aperta alla curiosità del pubblico. Prima dei poliziotti, era intervenuto l’avvocato Arturo Frojo, chiamato in aula come ex consigliere dell’Ordine e veterano dei penalisti a Napoli: «Mi hanno chiesto di intervenire, ho visto una scena poco gratificante per tutti, ho chiesto di essere ricevuto dal giudice (che era lo ribadiamo - in camera di consiglio per un precedente processo per fatti di droga, ndr) e ho trovato massima disponibilità a risolvere in tempi brevi la questione».

Sono quasi le 13, quando il processo a carico di Ricciard Unucoru (difeso dall’avvocato Giancarlo Di Iorio) viene rinviato a sabato mattina, formalmente per problemi legati alla mancanza di un interprete, anche se il giudice mette a verbale la condizione del detenuto: in sintesi, il giudice «dà atto che l’imputato è stato tradotto senza scarpe e senza maglietta», in una condizione che è stata poi definita «risolta». Resta quel buco di un’ora e mezza, con un detenuto di colore, scalzo e seminudo dietro le gabbie di un’aula di giustizia, quasi stupito di tanta attenzione ricevuta da quando è arrivato qui in Italia. 

 
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