Mario Ajello
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L’interesse nazionale/D-Day, noi e quel ruolo da giocare

di Mario Ajello
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Venerdì 7 Giugno 2019, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 10:37
«Let’s go!», disse il generale Eisenhower, senza un filo di retorica. E cominciò una delle più maestose e più complesse operazioni militari della storia. Lo sbarco in Normandia. Il significato dell’evento non si è perduto nel corso dei decenni e nei vari anniversari del «giorno più lungo» - il 6 giugno del ‘44 - ma stavolta a rendere particolare il ricordo del D-Day c’è stata la visita di Trump nel Regno Unito.

Che ha assunto un valore simbolico, è diventata una contro-narrazione rispetto alla dottrina Roosevelt dell’intereventismo democratico ed europeista degli Stati Uniti e ha messo in scena per l’ennesima volta, senza finte dissimulazioni diplomatiche che non appartengono al personaggio, quell’America First che è il torcicollo di quel grande Paese a favore del Pacifico e non dell’Atlantico. Condito da un particolarismo filo Inghilterra a tutto discapito della Ue. E cade al tempo della Brexit questo anniversario numero 75, coincide con la fase della massima incertezza europea, delle divisioni nazionali, del che fare del vecchio continente di fronte alla propria stanchezza e alle sfide globali.

Guarda caso, proprio mentre l’Occidente celebrava ieri il D-Day in Francia, Putin in modalità da contro-programmazione incontrava a Mosca il presidente cinese Xi Jinping.

Si potrebbe dire insomma, rispetto all’Europa di oggi che deve ripensarsi e ripartire, ciò che De Gaulle disse dal suo esilio londinese a proposito dello sbarco in Normandia: «La battaglia suprema è cominciata». Proprio per questo, al netto del fatto che l’Italia per motivi storici (anche se nel giugno ‘44 al governo c’era Badoglio e non più Mussolini) ha sempre tenuto un profilo basso nei vari anniversari novecenteschi e post-novecenteschi di quella pagina di storia, una partecipazione ai massimi livelli del nostro Paese alla festa del 75esimo sarebbe stato un segnale importante. Purtroppo non è stata possibile per un fatto di agende.

L’invito mandato dal premier francese all’evento di ieri a Colleville-Montgomery, con i governanti e gli statisti dei vari Paesi e non solo quelli alleati nella seconda guerra mondiale, è arrivato come da prassi alla Farnesina. Il livello di partecipazione (capi di Stato, capi di governo, ministri, diplomatici) viene deciso dal Paese invitato. Moavero, titolare degli Esteri, è impegnato in questi giorni in una missione di grande rilievo in Giappone. Conte, il premier, è in Vietnam, dove a sua volta sta svolgendo una operazione diplomatica importante. Dunque è stata delegata l’ambasciatrice italiana in Francia, Teresa Castaldo, a presenziare alle celebrazioni in Normandia. L’Italia c’è, insomma, a questo appuntamento che non è rivolto al passato ma attraverso il passato interroga il presente e il futuro. Ma se le agende non fossero ingolfate, mai come stavolta la presenza dei vertici istituzionali italiani alla riunione con Macron, la Merkel e gli altri sarebbe stata opportuna. Non ovviamente come l’ennesima passerella o come un atto di vassallaggio ad altre nazioni e ai loro leader, che oltretutto sarebbe inutile e non è neppure richiesto. Certe subalternità si spera siano finite per sempre.

Però essere a un evento insieme simbolico e politicamente fondante come quello per il D-Day poteva essere un’opportunità per il nostro Paese di impostare anche le altre partite che riguardano, nel quadro europeo, il nostro interesse nazionale. Perché non approfittare e sfruttare l’anniversario dello sbarco per intensificare i rapporti personali oltre che politici con i partner continentali, anche quelli iper-rigoristi dell’est e del nord, in vista della faticosa tessitura che ci accingiamo a condurre per evitare la procedura d’infrazione? 

Non esserci per esserci, dunque. Ma esserci per contare; per dimostrare di non sentirci isolati e di non voler essere isolati; per mostrare un’Italia orgogliosa di sé e desiderosa di un protagonismo fattivo sulla base delle proprie posizioni e delle proprie esigenze patriottiche, ossia di un orgoglio ben vissuto e non declamatorio. L’anniversario del D-Day come paradigma di come si giocano le partite internazionali sembrava perfetto. Ma altre occasioni non mancheranno e lo schema della marcatura a uomo, anche se l’Europa è donna, sarà quello più utile da praticare.
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