Il film choc sulle carceri italiane dove la giudice donna della Consulta abbraccia la detenuta

Il giudice Daria De Pretis
di Franca Giansoldati
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Giovedì 6 Giugno 2019, 09:50 - Ultimo aggiornamento: 09:54
La giudice della Corte Costituzionale, Daria De Pretis, nel carcere femminile di Lecce si trova di fronte ad una detenuta che a bruciapelo le chiede: «Cosa si porterà a casa dopo questa giornata trascorsa qui dentro con noi detenute?». «Tornerò indietro portandomi dentro le vostre facce». Ma non riesce a continuare e si ferma. E' commossa e le lacrime si affacciano. La detenuta posa il microfono e va ad abbracciare una donna come lei, e in quel momento due mondi ermeticamente chiusi – da una parte quello dei detenuti e dall'altra quello dell'Alta Corte, una istituzione percepita come sideralmente lontana dalla gente – all'improvviso si avvicinano, si uniscono, si parlano.

Ogni contatto umano lascia sempre una traccia e, certamente, quelli che hanno avuto i giudici della Consulta in questi ultimi mesi in un inedito, quanto straordinario viaggio nelle cerceri italiane, hanno finito per colmare un fossato. Le loro decisioni sulle leggi hanno riflessi sulla vita delle persone in carne ed ossa, sono reali, tangibili, si possono cedere. Marassi, Rebibbia, San Vittore, Nisida, Lecce, Terni, sono alcuni degli istituti che hanno aperto le porte alle telecamere, a incontri impensabili fino a qualche tempo fa, divendando un docu-film che è stato proiettato in anteprima a Roma, ieri sera, alla presenza del capo dello Stato, Sergio Mattarella.

Il filmato è stato prodotto dalla Rai, sotto la regia di Fabio Cavalli, e verrà mandato in onda in seconda serata sulla Rai domenica sera. La parte che colpisce di più è forse quella delle detenute. Sul totale dei carcerati solo il 5 per cento sono donne, evidentemente sono meno propense al crimine. Ma colpisce come un pugno nello stomaco anche il loro essere mamme e questo fa sì che affiorino quesiti irrisolti. Può una mamma che allatta, colpita da provvedimento cautelare, restare in cella? Può una mamma detenuta vedersi negare il permesso per restare ad accudire un figlio handicappato o malato di tumore? Durante il viaggio nei penitenziari i giudici dell'Alta Corte non sempre hanno avuto risposte. Spesso è stato il silenzio a fare da sfondo a situazioni umanamente incomprensibili.

Tra i detenuti c'è chi dice di avere commesso reati per non avere trovato un lavoro, chi dice che se mai dovesse uscire dalla cella è perduto, perché non ha più nessuno, chi piange perché fuori ha una figlia malata. L'impatto mediatico del film è fortissimo e fa toccare con mano cosa significa la speranza oltre i muri e le sbarre. Un elemento che, dicono i giudici, esiste in ogni parola della Costituzione fatta per proteggere i più deboli, ma che purtroppo, aggiunge il giudice Amato, per un pezzo è rimasta inattuata. Eppure dovrebbe essere compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli e fare da scudo a questa umanità che vede solo il buio davanti.

Ci sono anche una mamma e una figlia assieme, nello stesso carcere, ed è un'altra delle tante storie di marginalità, ingabbiate dal destino, prima ancora che dalle sbarre. Un ragazzino alla giudice Marta Cartabia, urla non è vero che siamo tutti uguali davanti alla legge. Un altro che non tutti gli avvocati sono uguali. L'uguaglianza, la libertà, l'umanità che manca, la distanza delle istituzioni che si misura in anni luce. E alla fine i giudici che diventano persone e dal quel film si capisce che l'Alta Corte è qualcosa che vigila in silenzio sulla vita di tutti. Per la cronaca: quel docu-film è stato reso possibile dall'idea e dalla forza visionaria di una donna, Donatella Stasio, responsabile delle relazioni esterne alla Consulta. 
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