Riccardo De Palo
Lampi
di Riccardo De Palo

Parla Malvaldi: i vecchietti del BarLume, la vita al tempo del carcere e un geniale umorista toscano

Marco Malvaldi nello studio tv del Messaggero
di Riccardo De Palo
6 Minuti di Lettura
Martedì 4 Giugno 2019, 15:12

Marco Malvaldi tradisce per una volta (e una soltanto) Massimo e i vecchietti del BarLume per una «commedia da camera» scritta a quattro mani con un tunisino, Glay Ghammouri, condannato per omicidio. Vento in scatola è nato da un corso di scrittura creativa, da un'amicizia nata nel carcere di Pisa. «Lavorare con un detenuto non è semplice - spiega lo scrittore - ci sono voluti quattro anni per arrivare alla fine. Il primo capitolo l'abbiamo scritto a mano. Poi, lui scriveva su un computer piombato che gli avevo procurato io; e una volta al mese ci scambiavamo gli stampati. Solo nell'ultima fase abbiamo cominciato a usare un cd, che non è ben visto dall'amministrazione carceraria perché è un oggetto pericoloso, può diventare un'arma da taglio».

 



Lei scrive che, per conoscere veramente la libertà, occorre conoscere il carcere. Perché?
«Capire la nostra libertà significa comprenderne i limiti: non c'è prigione peggiore del deserto, di un posto in cui non c'è niente. Ci sono dei limiti con i quali dobbiamo interagire, intorno ai quali giriamo senza poterli rompere; e uno dei paletti fondamentali è che la nostra libertà finisce dove iniziano quelle altrui».

Nel microcosmo carcerario s'intravede, in filigrana, il mondo esterno. Il carcere diventa metafora della società? 
«Per i detenuti non conta molto il prima ma il presente, non il motivo per cui si è lì, ma quello che si fa. Sono uomini esattamente come noi, solo che a un certo punto della loro vita hanno commesso un reato. Fa venire i brividi parlare con persone come Glay, con cui abbiamo tantissime cose in comune, un certo senso dell'umorismo, ma anche della giustizia, molto profondo. Ti rendi conto che, nelle circostanze che hanno portato lui a fare quello che ha fatto, forse anche tu non ti saresti comportato molto diversamente. Noi crediamo di controllare la nostra vita, ma c'è un effetto di deriva, che parte piano, e quando cresce e te ne accorgi, è già fuori controllo».

Dopo questo esperimento, riprenderà la serie del BarLume?
«Le riprese della prossima serie sono iniziate e io sto pensando al prossimo romanzo con Massimo e i vecchietti che sono la cosa che mi dà maggiore soddisfazione scrivere».

Che tema toccherà nel nuovo libro?
«Sarà un'interazione fra tre parti diverse della società: il comune, (la gestione politica); la società (e quindi Massimo e i vecchietti); e la parte amministrativa. SI parlerà di un'usanza molto italiana nota come usi civici. Quella consuetudine che consente, per esempio, di poter pescare e raccogliere legna in un determinato territorio anche se non è di tua proprietà. Mi immagino che da questa interazione nasca una specie di gioco di morra cinese, dove il sasso vince con le forbici ma perde con la carta e viceversa, in un ciclo in cui è difficile trovare un vincitore».
 
 



Lei è pisano e si dà il caso che io sia nato a Livorno, è un problema?
«L'importante è non viverci più, tagliare i ponti! Scherzi a parte, è una rivalità goliardica che esiste da sempre. Il livornese dice: Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio perché i pisani erano gli esattori delle tasse di Firenze e il pisano risponde: Che Dio t'accontenti. L'importante poi è essere tutti uniti contro Firenze, che rappresenta il Male del mondo. Ogni città toscana ha una rivale perché in fondo, per noi, il Rinascimento non è ancora finito».

Si usa molto dialetto nei gialli: la sua è una versione pisana di Camilleri.
«Sì, perché il giallo si trova bene in un ambiente chiuso».

Vale a dire?
«Il giallo classico richiede unità di tempo, di spazio e di azione; e funziona meglio in spazi ristretti, come la provincia, dove si parla il dialetto. In una metropoli è più difficile. Nella provincia toscana, quando le persone parlano di cose che sono successe nella loro zona di pertinenza, usano il dialetto, mentre quando parlano di politica internazionale si piccano di parlare in un italiano secondo loro spettacolare...»

A volte, sbagliando i congiuntivi?
«Non solo, parlando al presente, all'infinito: io pensare che... (ride, ndr). Io ogni tanto parlo della squadra di calcio del Pisa ed è impossibile farlo con proprietà di linguaggio, in maniera assolutamente forbita. Del Pisa si deve parlà in questa maniera qui: o perché non l'ha passata? Di solito non discuti di calcio con professori universitari. O, se lo fai, anche loro parlano in pisano stretto e quindi il dialetto viene naturale».

Tra gli autori che l'hanno ispirata ce ne sono anche di toscani?
«Sicuramente mi hanno mosso a scrivere i grandi giallisti, da Agatha Christie ai libri con Nero Wolfe - i gialli di Rex Stout sono eccezionali - gli umoristi inglesi, Douglas Adams, Jerome K. Jerome, P.G. Wodehouse, ma anche l'italiano Stefano Benni e poi un umorista toscano adorato in Toscana e quasi sconosciuto al di fuori...»

Vale a dire?
«Ettore Borzacchini, pseudonimo di Giorgio Marchetti, autore tra l'altro del "Borzacchini universale, dizionario ragionato della lingua livornese, ad uso delle persone colte e dei pisani", il titolo completo è questo qua».

Ci spieghi meglio.
«È un libro che, per darle un'idea, contiene quartine di Gozzano apocrife. Per spiegare l'espressione muso a piccozzino, ci mette una poesia che recita così: Maddalena con sordo brontolio/ riponeva gli arredi già detersi/ rigovernava lentamente/ ed io già disperso nei sogni più diversi/ accordavo le sillabe dei versi/ sul ritmo uguale dell'acciottolio/ là ti rividi al colmo del giardino/ di fronte all'uscio della casa avita /col culo basso e il muso a piccozzino/ che ti pulivi il naso con le dita. Lei mi dica, si tratta di Gozzano oppure no? Comunque, un endecasillabo perfetto».

Non male.
«Era uno dei più grandi architetti italiani, Giorgio Marchetti, con il suo nome vero; ma con quello di battaglia era un genio folle. È morto nel 2014.
Partiva proprio dalla cultura paludata, da quello che chiamava umaname di second'ordine: i suoi bersagli erano assessori provinciali o presidenti di circoscrizione, rettori o vicerettori di università, persone che tenevano tantissimo al piccolo potere che si erano conquistate. Tra i moltissimi apocrifi, ricordo il notevole reverendo Murcison, unico statunitense ad avere compreso le regole del gioco che gli europei chiamano football e gli americani invece definiscono soccer, calcio. Leggiamo in una nota a piè di pagina che il reverendo Murcison è morto nel tentativo di calciare un rigore di testa». 

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