Quando Perroni, spadaccino della scrittura, cercava la frase perfetta

Quando Perroni, spadaccino della scrittura, cercava la frase perfetta
di Marco Ciriello
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Domenica 26 Maggio 2019, 15:49
Sergio Claudio Perroni era un uomo duro, che poi si scioglieva, scrivendo, raccontando. Mi fu presentato da Amleto De Silva, a Salerno, una sera di qualche anno fa, non mi ricordo che libro presentasse, e non voglio guardare né contare i giorni, perché mi ricordo che ci sfidammo a comporre una antologia dei salvabili dallo schifo che sono i cataloghi delle case editrici oggi, cominciammo a cena e continuammo durante la presentazione, con lui che si alzava e veniva a dirmi i suoi, e viceversa. L’ultimo, che scelsi io, e che lui doveva approvare, era quello l’accordo – non bastava proporre dovevamo convenire insieme – fu Guido Morselli (che oggi combacia, preme, e pesa più di allora) ci pensò su, poi disse sì, perché forse era un torto a Italo Calvino, sul quale avevamo discusso a lungo. Era così, puntiglioso, ossessivo, una prateria di letture, sua la traduzione insuperabile de “La scopa del sistema” di David Foster Wallace (per lui il meglio dello scrittore americano: considerando “Infinite Jest” «una grande sega»), come “Furore” di John Steinbeck, “Lo straniero” di Albert Camus, e molto moltissimo altro. L’aristocrazia stava nel rimprovero, la classe nell’approvazione, sapevi che se gli era piaciuto qualcosa di tuo: diveniva incriticabile dal resto, come una categoria superiore, la sua, al punto che si poteva permettere l’irrisione esplicita fino alla molestia di chiunque, e senza nessuna tregua.

Era uno spadaccino, un samurai, un isolato, un appartato sempre presente attraverso le parole, sì, un ossimoro, una monade, anche se ho paura a parlare di Gottfried Leibniz, non so se gli sarebbe piaciuto. Anche perché una volta avevamo parlato di uno scrittore che ne ricordava un altro sbagliando le virgole nel commiato, e ci eravamo dispiaciuti per il morto. Ma non era un moralista né aveva un sentimento visionario, era uno che sapeva strabiliare, perché era andato a fondo: nelle lingue e nelle storie, nelle biografie e nei contesti, per questo sapeva montare cose lontanissime tra loro, e come rendere comuni altre distanti, e odiava ferocemente la superficialità. E l’invasività. Non commetteva il peccato di scrivere le dediche a penna, ma a matita con un tratto leggero, distillando le parole. Assisteva allo spettacolo straniate della narrativa italiana con ironia, lavorava con delicatezza alla costruzione dei suoi libri, provando a tenere l’altezza della sua conoscenza con la bassezza delle richieste di mercato: almeno negli ultimi due. In “Renuntio vobis” utilizzando versetti del Vecchio e del Nuovo Testamento aveva giocato con la crisi del papa, inventando opere inesistenti, in uno specchio distorcente. “Nel ventre” provava a rispondere alla domanda: che cosa è successo dentro il cavallo di Troia? Immergendosi nel mistero. Il risultato fu: teatralità e genio, che poi lo abitavano, gli piaceva leggere e commentare in pubblico, raccontare e spiegare, senza strafare, in un sottotono stupefacente, perché tutto in lui era votato alla sottrazione, alla ricerca della concretezza, per questo non sopportava i barocchismi, le esibizioni, l’iperproduzione, provando come Faulkner a scrivere il rigo giusto, la frase perfetta. Ma non era tutto rigore, c’era anche ironia (una volta, in radio, commentando uno dei libri “semestrali” di Antonio Monda immaginammo un reading degli assurdi romanzi mondiani), una ironia corrosiva che diveniva apologo, come quando – qualche mese fa a Vibo – vedendo me e Amleto De Silva affascinati da Roberto Vacca, passando ci disse: «Quarant’anni fa, il professore, venne a spiegarci il futuro a Milano, mancava solo il codice fiscale di Steve Jobs». E rideva, sornione, perché ci stava sorpassando, aveva già provato quella sensazione, e poi ne avrebbe chiesto conto dopo. Anche ora ci ha sorpassato, sopravanzandoci con un colpo di pistola. E non mi meraviglia il suo gesto: perché è coerente con la sua vita, ed è così coerente che non mi meraviglierei che avesse anche lasciato un libro sul suicidio, proprio come fece Edouard Levé – che ovviamente lui aveva tradotto, e che si era sparato, dopo aver scritto e consegnato “Suicidio” – commettendo, però, l’errore d’uccidersi in casa. «Nell’arte, togliere equivale a migliorare. Scomparendo ti sei perpetuato in una bellezza negativa». Sergio Claudio Perroni, era già in quelle pagine di Levé, che erano anche sue.
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