Che ne facciamo della televisione? Risponde Carlo Freccero

Che ne facciamo della televisione? Risponde Carlo Freccero
di Carmine Castoro
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Martedì 10 Giugno 2014, 10:16 - Ultimo aggiornamento: 10:19
Sembra una domanda bizzarra, eppure ha contorni allarmanti, ineludibili: che ne facciamo della televisione? La mettiamo finalmente con le spalle al muro, la inchiodiamo alle sue responsabilità, la torniamo a considerare uno strumento di dominio e manipolazione – come hanno fatto negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta schiere di filosofi illuminati in studi eccellenti-, o la trattiamo da divertissement collettivo, da macchina del non-sense, da giostra impazzita e scintillante su cui abbiamo deciso di salire e dalla cui vorticosa accelerazione non riusciamo più a scollarci?










Sicuramente dobbiamo studiarla, analizzarne l’anatomia, come su un tavolo settorio, come si fa con i corpi ormai senza vita, per decodificare le cause di un decesso, per immunizzarci dai virus che l’hanno attaccata, dissolvendola, deformandola, spesso condannandola a una malattia strana e precoce. Se i clinici al suo capezzale eseguano un’autopsia del nostro stesso immaginario, o la cucitura di un Golem che riprende fiato all’improvviso, è da vedere. La sfida, insomma, parte dal negativo.



Ed è quello che riesce perfettamente a fare questo pamphlet, “Televisione”, uscito dalla penna sofisticata e intelligentemente “francofortese” di Carlo Freccero, testimonial vivente del piccolo schermo, nei suoi più cruciali passaggi dalla tv pubblica, a quella sperimentale (come fu la direzione della sua Rai2), a quella transnazionale, a quella commerciale sotto l’egida del Cavaliere, fino alle nicchie nate dal web e dal proliferare del digitale, che hanno almeno l’intenzione di ricostituire la fibra, la nervatura, la solidità, seppur non pedagogica e centralista, di un mezzo di informazione che sembra sempre nelle mani di chi ci assale e si assolve col Gran Chiasso delle parole e delle immagini in libertà.



La bellezza del testo di Freccero sta proprio in questa delicata funzione: applicare una sana “cultura del sospetto” ai poteri e alle logiche che la televisione nasconde e germina nel proprio grembo, ma con un occhio attento a micro-rivoluzioni, a “briciole”, “schegge”, come lo stesso Freccero dice nella videointervista, che possono salvarla da un’assoluta autoreferenzialità, dal far strisciare modelli e mappe comportamentali che penetrano, saturandola e deprimendola, nella nostra anima, da quel “pensiero unico” che parlando all’emotività, e alla parte più nobile e dolce del nostro essere, ci abitua ad abdicare sistematicamente a teorie, letture ampie, movimenti di rottura, prese d’atto e cambi definitivi di canale.



«Negli anni della repressione sessuale la trasgressione riguardava la nudità dei corpi e la pratica del sesso – dice Freccero nel libro-. Nell’epoca della privacy l’osceno riguarda l’esibizione del privato e dei sentimenti».



E forse è proprio questo il ventre molle del regno della Fiction oggi, intendendo per fiction quel meccanismo pervasivo di falsificazione applicato agli sceneggiati come alle news, ai reality come ai contenitori da grande pubblico: pretendere di fare a meno di connessioni logiche, della costruzione di nodi, dell’astrazione concettuale, della cultura, funzioni nelle quali davvero ha sempre albergato la specificità dell’Homo Sapiens, e proporre un’agape dell’inutile, una festa dell’immanenza, un gigantesco cerimoniale del ridotto, del banale, del “vedere in diretta”, la “verità dell’enunciazione e non quella dell’enunciato”, ovvero la forma perfetta di un artificio, piuttosto che un radicamento problematico alla realtà e alla libertà.



Il punto critico allora non sarà più l’infezione dell’informazione con l’intrattenimento, bensì una pratica ancora più sofisticata di alterazione del “fatto” e delle cornici dello stesso, una fissazione di codici e di rituali altamente desimbolizzati e legati a doppia cinghia al consumismo imperante, che fanno della televisione un Moloch intramontabile, fucina di maggioranze e di consenso, di sogni di massa e di simulacri che non hanno più bisogno di officianti e di tastiere per muoversi, ma che si insediano in noi soggiogandoci come un supplizio-soft. Di cui non ci accorgiamo se non quando capiamo che le nostre vite si scolorano nel caos di pseudo-eventi che nessuno ci spiega, di problemi socio-economici strutturali dilapidati nei talk da parolai di prime-time e cicisbei della politica, di bisogni indotti che ci lasciano sempre scontenti e invidiosi. Una mutazione antropologica vera e propria alla quale Freccero reagisce con la rabbia del ricercatore, con il coraggio di chi affina metodi di indagine che hanno superato la prova dei tempi intingendoli nella salsa piccante di un “nuovo” inaggirabile fatto di serial americani, di format-cult, di citizen journalism che hanno la loro bellezza e cogenza.



Ma teniamo i piedi per terra, ci dice l’autore. L’automobile, comandata o meno, può evitare di finire contro una scogliera. Se almeno rialfabetizzassimo la lingua dell’emancipazione e del contrattacco, implacabile, e non più inerte, stordito, contemplativo come Società dello Spettacolo detta. “Il linguaggio televisivo, nel momento in cui diventa linguaggio di potere, non può che essere una forma di sapere, ma è una forma di sapere depotenziato, parodistico e vuoto. Al linguaggio del sapere tradizionale, filosofia, scienza, epistemologia, si sostituisce il marketing, il sondaggio”. Dunque, un “bisogno estremo di immaginario e di narrazione” ci può salvare, impedendo la grande, micidiale ondata di fango che ci sta già sommergendo con l’unanimismo delle mode commerciali, l’eterno presente di una storia bloccata dai segni dei media e senza soluzioni o utopie, con le allegre putrefazioni di una democrazia al ribasso, barbarizzata e populistica, dove i petomani vengono battezzati “artisti” dalla De Filippi a “Italia’s Got Talent” e si offre facile cittadinanza nella Repubblica degli ignoranti, bellocci e arrivisti. Educare, divertire, informare: questa l’eredità etica ed estetica del bel libro di Freccero. Come a dire: una terra promessa ci attende, il cui sindaco non sarà certo un Solone della vecchia guardia, barbuto e noioso, che vuole ammannirci le sue tavole dei valori, ma nemmeno uno squallido guru dei tanti “pomeriggi in compagnia” che ci parcheggia tutti, bambini adulti e anziani, sul binario morto di una ingiusta demenza.



Carlo Freccero “Televisione” (Bollati Boringhieri, pagg.172, euro 9)
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