Poveri ma belli, il Pescara di Galeone dalla polvere al sogno

Poveri ma belli, il Pescara di Galeone dalla polvere al sogno
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Mercoledì 22 Maggio 2019, 16:57 - Ultimo aggiornamento: 12 Ottobre, 14:59

Esce in questi giorni in libreria Poveri ma belli. Il Pescara di Galeone dalla polvere al sogno (Ultra sport, 219 pagine, 16 euro) di Lucio Biancatelli, con prefazione di Gianni Mura. Il libro racconta la storia di un piccolo capolavoro, una squadra nata per caso e con pochi soldi. Un mix d’incoscienza, spensieratezza e bel gioco che stupì l’Italia calcistica della seconda metà degli anni Ottanta. Ne anticipiamo alcune pagine.

Il gruppo
Galeone: «Avevo una banda di ragazzini che per la metà erano insicuri. Non erano convinti delle qualità che potevano avere. Erano ancora immaturi, ma avevano anche giocato poco, pochissimo. Era una squadra che non aveva un leader, anche per questo Gasperini divenne l’uomo simbolo di quel gruppo. Perché era l’unico che aveva carisma, temperamento… anche se a volte era veramente eccessivo. I due che potevano fare la differenza erano lui e Ciarlantini. Però Ciarlantini era più confusionario. Gasperini più concreto, però rompicoglioni, quindi ogni tanto poteva dar fastidio a qualcuno, tipo Loseto. Piero era un po’ geloso perché io avevo i miei pupilli e lui non era uno di loro, anche se lo stimavo moltissimo, tatticamente era un fenomeno. Però io avevo questo debole per Loseto: non era nessuno, lo feci diventare “il professore” [dice sorridendo], giocava centrale, da regista».


 


L’altro pupillo, lo si capisce dallo sguardo e dal sorriso di Galeone quando ne pronunciamo il nome, era Rocco Pagano: «Rocco era uno che i difensori li mandava al manicomio. Poi ce n’erano altri che pensavano di non essere miei pupilli, ma in realtà li prendevo in grande considerazione. Uno di questi era Berlinghieri. Lui ce l’aveva con me perché spesso gli preferivo Gaudenzi. Primo era un po’ anarchico ma aveva delle qualità tecniche fantastiche. Si sentiva un po’ snobbato da me ma in realtà lo stimavo moltissimo. Ricordo la professionalità e la concretezza di Bergodi, il carattere schivoma positivo di Benini. Bosco fece una gran campionato quell’anno. Pensavo avrebbe fatto di più come allenatore. Gaudenzi grande temperamento, voglia, abnegazione, sacrificio, di tutto di più. Con me si lamentava: “Mister lei ce l’ha sempre conme”. E io: “Gaucho se io non ti considerassi non ti direi niente! Tu dovrai preoccuparti quando io non ti dirò più niente, allora vorrà dire che non me ne fregherà più niente di te! Fino a quando ti riprendo perché hai dei piedi di legno puoi star tranquillo!”. E Gaucho alla fine mi adorava. Franco Marchegiani, ragazzo con cervello. È arrivato a stagione iniziata ma ha saputo prendere le occasioni che gli sono state date e si è inserito bene nel gruppo. In quel gruppo lì non ce n’era uno che non si fosse inserito. Cito un episodio per dire come era il gruppo, che tipo di giocatori erano: il martedì facevamo l’analisi della partita, io non parlavo mai molto nello spogliatoio (una volta si usava così, non c’erano video o cose del genere) salta su Berlinghieri e fa: “Mister, però noi giochiamo sempre a destra, diamo sempre la palla a Pagano, io a sinistra gioco poco…». Allora intervenne Piero, Gasperini: “Mister, posso? Scusa Primo, ma se noi ci accorgiamo che Pagano nove volte su dieci salta il terzino, certo che la giochiamo a destra, la prossima volta la daremo a te e vinci tu la partita!”. Oh, l’ha zittito. Questo per dirti come già da giocatore ragionasse da allenatore, per il bene della squadra e non per il singolo. Primo aveva altri tipi di qualità ma per il gioco che facevamo noi la velocità di Pagano era fondamentale. Lo svolgimento del gioco era più immediato. Infatti alle volte con Primo bisognava incazzarsi. Se perdeva palla per fare i suoi numeri rischiavamo di andare in difficoltà, perché noi quando avevamo la palla andavamo su, non stavamo a far calcoli».[...]

La zona, Sacchi e Zeman
Galeone: «La zona la facevo già nel 1976 nelle giovanili dell’Udinese. Ma se parliamo a livello professionistico, a parte i grandi maestri come Liedholm, che faceva parte non solo di un’altra generazione ma di un’altra cultura calcistica, uno dei primi fu Catuzzi. E nessuno lo nomina. Giocando anche bene tecnicamente, cercando la qualità. Dal Cin mi mandava a vedere alcuni giocatori tra cui Caricola che allora giocava nel Bari. Catuzzi giocava benissimo. E mi aiutò il fatto che al Pescara la zona era già stata fatta con lui. Con Prosperi ne parlavamo. La zona non l’ha inventata Sacchi, o Zeman. Zeman addirittura arriva anni dopo, nel 1991 col Foggia. In Serie C l’unico che giocava con il pressing in quegli anni era Orrico con la Carrarese o con il Brescia. Sacchi è arrivato dopo. Quando il mio Pescara doveva giocare a Foggia in Coppa Italia, mandai Minguzzi a vedere una partita del Foggia. Torna e mi dice: “Mister, questo sta copiando tale e quale quello che faceva lei tre anni fa. L’unica differenza”, mi disse Minguzzi, “è che lui attacca con i terzini e pochissimo con i mediani, mentre lei lavora molto sull’inserimento dei centrocampisti”». [...]

Tecnica, velocità, fantasia. Questo il calcio di Galeone. Un calcio che per realizzarsi ha bisogno dei seguenti ingredienti: coraggio, allegria, spensieratezza. Leggerezza. «I giocatori devono sentirsi come nel loro salotto di casa», disse in un’intervista al «Messaggero» di tanti anni fa. Dietro, c’è l’idea di un calcio dove i protagonisti rendono al massimo perché condividono la “filosofia” di fondo, lavorando in ambiente familiare. L’idea, semplice e rivoluzionaria, che il pubblico si diverte se tu per primo, interprete di quel calcio, ti diverti. E credi in ciò che fai.

Avrebbe meritato l’occasione di un palcoscenico di primo piano, una panchina di prestigio? La risposta dal nostro punto di vista non può essere che una.

Sì, l’avrebbe meritato. Ricordiamo negli anni Novanta l’improbabile Juve di Maifredi e la traballante Inter di Orrico. Altri zonisti rivoluzionari che venivano da realtà minori. Il Milan di Sacchi. Perché non Galeone? Forse la sua fama di ribelle, anticonvenzionale e controcorrente, che già da calciatore non lo aiutò nell’Italia perbenista degli anni Sessanta, hanno influito. Forse il caso. Una profezia di Dino Viola pronunciata dopo il trionfo all’Olimpico contro la Roma di Renato e Andrade non si avverò mai: «Galeone sarà l’allenatore della Roma degli anni Novanta». Una cosa è certa: qualsiasi destinazione avesse preso la sua carriera, lo avremmo sempre rivisto, prima o poi, passeggiare sulla spiaggia di Pescara, con il suo cane. A costruire castelli di sabbia. [...]

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