Essere tra le prime innovatrici europee è un traguardo importante: «le donne imprenditrici sono tante, ma non sempre sono in prima linea sul mercato e sui giornali», dice. Nata e cresciuta a Roma, dopo aver studiato Scienza dei materiali nell'università di Tor Vergata ha fatto il master nel Politecnico di Zurigo. «Lì ho trovato condizioni ideali per il dottorato e così ho deciso di rimanere. Poi è cominciata la collaborazione con mio socio sulla tecnologia delle etichette al Dna. Giorno dopo giorno realizzavamo il potenziale che questa tecnica aveva e piano piano è cresciuto il desiderio di non lasciarla su un articolo scientifico e di portarla sul mercato».
Le etichette al Dna si adattano a qualsiasi settore della produzione, dal tessile all'agroalimentare. «Oggi la maggior parte dei sistemi di tracciabilità è fisicamente distaccata dal prodotto, che siano certificati o codici e barre, fino alla blockchain, e questo può indurre frodi», osserva Puddu. L'idea, allora è stata utilizzare le quattro lettere alla base del codice della vita per scrivere sequenze di informazione genetica completamente nuove e artificiali, ma che possono essere lette con kit già in commercio e utilizzati per le analisi forense o in quella nella clinica, come in una sorta di 'test di paternità' del prodotto, semplice e non distruttivo. «Sono sequenze di Dna che non hanno significato biologico, ma che rappresentano un produttore o una casa manifatturiera», spiega Puddu. Una volta rese stabili e incapsulate in particelle sferiche che proteggono il Dna da alterazioni, le etichette al Dna sono completamente trasparenti e vengono nebulizzate sul prodotto in qualsiasi fase della produzione, dalla raccolta della materia prima al manufatto: «in questo modo è possibile ricostruirne tutta la storia e determinare l'autenticità
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