PRESIDENTE BARBUTO. In prima fila la Giuria guidata da Alejandro Gonzàlez Iñarritu, «il primo presidente barbuto nella storia del Festival», ha scherzato il delegato generale Thierry Frémaux. Estroverso e carismatico, 55 anni, debuttante sulla Croisette giusto vent’anni fa con la sorprendente opera prima Amores Perros, il regista è l’alfiere, insieme con i colleghi e amici Guillermo Del Toro e Alfonso Cuaròn, di quella new wave messicana che negli ultimi anni ha rivoluzionato Hollywood rastrellando l’80 per cento degli Oscar. Dei tre maestri è l’unico a non aver ancora ceduto alle lusinghe di Netflix eppure, a Cannes, non ha scagliato l’anatema contro il ”nemico” tuttora bandito dalla competizione. «Non sono contro gli schermi digitali anche se il cinema visto in sala è tutta un’altra cosa: nasce come esperienza collettiva e solo come tale ha veramente senso», ha detto, «ma i tempi cambiano e 200 anni fa nessuno avrebbe potuto prevedere che avremmo ascoltato Beetohoven in automobile. Esistono molti modi di vedere il cinema, la scelta spetta al pubblico. Netflix ha il merito di diffondere nel mondo intero molti film che difficilmente arriverebbero in sala».
Iñarritu è la prima personalità latinoamericana a presidere la Giuria di Cannes dove in passato aveva presentato anche Babel e Biutiful. E due anni fa, sulla Croisette, fece scalpore Carne y Arena, la sua installazione che attraverso la realtà virtuale proiettava fisicamente ed emotivamente gli spettatori in mezzo ai migranti messicani inseguiti dalla polizia al confine con gli Usa.
CONTRO I MURI. «Quell’opera», ha spiegato il regista, «rappresentava la mia reazione a quello che succede oggi nel mondo. Sono un artista, non un politico, e racconto quello che sento». Vale a dire? «Erigere muri, rinforzare le frontiere è sbagliato e pericoloso, proprio come perseguitare le persone indifese che fuggono dalla violenza e finiscono poi inghiottite dalle sabbie del deserto o annegate in mare. Invece i governanti ci raccontano un’altra storia. Siamo in un momento pericoloso che evoca il 1939 e l’ascesa del nazismo. Conosco i migranti e so che i pregiudizi nei loro confronti nascono dall’ignoranza, specie in Paesi come l’America che vede solo il cinema nazionale e non sa cosa succede altrove». Parla della politica di Donald Trump? «In America sono stato accolto a braccia aperte e ho sempre potuto fare il mio lavoro in condizioni privilegiate. Ma soffro quando vedo che i miei fratelli messicani, anche quelli che vivono negli Usa da anni, non hanno gli stessi diritti».
VIAGGIO EMOTIVO. Ecco perché, continua il regista di Birdman, il Festival è necessario: «Ha il merito di puntare i riflettori sulla diversità». E lui, «onorato ed eccitato» di presiedere la Giuria, è deciso a non giudicare i film dei colleghi in corsa per la Palma d’oro ma vuole lasciarsi «impregnare» dalle loro emozioni. «L’ideale sarebbe non sapere chi sono gli autori dei film che vediamo...Stiamo per intraprendere un bellissimo viaggio emotivo e i premi li decideremo tutti insieme. Spero di uscire da questa esperienza trasformato».
Non vedono l’ora di cominciare anche gli altri giurati: Enki Bilal, Maimouna N'Diaye, Yorgos Lanthimos, Kelly Reichardt, Robin Campillo, Pawel Pawlikowski, Elle Fanning e la nostra Alice Rohrwacher. Che ha parlato della disparità di genere, tema di attualità anche al Festival. «Quando mi domandano cosa si prova ad essere una donna regista», ha detto, «rispondo che è inutile chiedere ad un naufrago perché sia sopravvissuto. Bisognerebbe rivolgersi a chi ha fabbricato la nave, a chi ha venduto i biglietti. Le cause della disparità vanno ricercate indietro nel tempo, non ha senso parlarne all’ultimo momento».
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