L'autostima è la strategia del successo: solo il 17% delle donne in Italia è dirigente

di Franca Giansoldati
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Sabato 11 Maggio 2019, 12:12 - Ultimo aggiornamento: 13 Maggio, 10:59
La grande Marie Curie, premio Nobel per la fisica nel 1903 e premio Nobel per la chimica nel 1911, quando non c’era nemmeno il suffragio universale, nei suoi diari annotava una frase bellissima che racconta molto della sua determinazione.

«La vita non è facile per nessuno. E allora? Noi dobbiamo perseverare, soprattutto avere confidenza in noi stessi. Dobbiamo credere che siamo dotati per qualcosa, e che questa cosa deve essere raggiunta». A quei tempi non si parlava di certo di autostima, e non c’erano seminari per aumentare la dose di self-confidence, componente di cui le donne continuano a difettare, come del resto fotografano tante indagini di mercato. Recentemente la Unilever ha indagato sul rapporto tra beauty confidence e autostima nelle adolescenti e ne è uscito un quadro sconfortante che la dice lunga sulla paralisi interna di tante future donne. 4 ragazze su 10 hanno un pessimo rapporto con il proprio corpo, 5 su 10 sentono la competizione con familiari e amici e altrettante pensano di non poter mai dimostrare le proprie debolezze.
 
 


CRESCITA MODESTA
Dalla fotografia del mondo degli adolescenti si passa a quella del mondo del lavoro e anche lì, a vari livelli, il terreno italiano è ancora tutto da dissodare. Il punto è che le donne non crescono – personalmente e professionalmente - come invece dovrebbero. Naturalmente la partecipazione femminile alla forza lavoro negli ultimi decenni è aumentata tantissimo. Tuttavia le possibilità di fare carriera, di sbriciolare quel muro invisibile ai livelli apicali, di raggiungere i ranghi più alti magari nei settori tradizionalmente maschili resta una opzione eccezionale e non un automatismo legato alla normalità. Nella classifica internazionale dell’ultimo World Economic Forum a proposito di gender gap, l’Italia - in fatto di opportunità economiche e partecipazione femminile – si è classificata al 118esimo posto su 144 Paesi. Un pessimo indicatore. Le donne restano evidentemente al palo. Non solo. Il divario di genere tra uomini e donne negli ultimi anni ha addirittura fatto passi indietro, con un inspiegabile regresso. Come il cammino di un gambero.

Quello che sta accadendo nel nostro Paese, all’interno delle principali aziende, lo ha analizzato a fondo, nelle sue dinamiche primarie, l’Osservatorio OECCG della Luiss Business School grazie ad uno studio (in collaborazione con EY) durato oltre un anno e coordinato dal professor Guido Cutillo grazie al quale è stata sezionata a fondo la radice del problema che si verifica nel mondo aziendale in presenza di squilibri: il gender gap, il gender pay up, la scarsa presenza nel board di presenze femminili e, per finire, le limitate soluzioni finora adottate nella formazione dei quadri interni per mitigare l’attuale voragine. Il campione sul quale i ricercatori hanno lavorato è composto da 34 aziende, la maggior parte delle quali importanti società capogruppo, mentre un terzo del campione fa parte del settore finanziario. In tutto sono stati coinvolti complessivamente mezzo milione di dipendenti su tutto il territorio nazionale.

IL QUESITO
Il grande quesito che nel corso della raccolta e della elaborazione dei dati si è affacciato subito riguarda la radice culturale di questo ritardo, una radice che purtroppo produce ancora stereotipi che imputano alle donne di essere meno capaci degli uomini dal punto di vista gestionale. I ricercatori si sono chiesi se è possibile colmare velocemente il gap. Il legislatore in questo decennio è intervenuto alcune volte: prima nel 2006, introducendo il codice delle pari opportunità, poi nel 2011 con la cosiddetta legge sulle quote rosa (che esaurirà la sua efficacia nel 2022). Nonostante gli interventi legislativi però gli effetti ottenuti non sono riusciti a essere sufficienti per risolvere i problemi. La presenza delle donne nelle aziende resta per il 50% a livello impiegatizio. Le loro presenza scende al 32% per i quadri e al 17% per i ruoli da dirigenti. Nei collegi sindacali o nei cda sono come i panda, solo il 33% , ma l’evidenza salta agli occhi con gli stipendi, il famoso gender pay up. Il rapporto tra la retribuzione annua maschile e femminile, a parità di ruoli e mansioni, decresce man mano che si salgono gli scalini. Se gli stipendi sono quasi paritari a livello impiegatizio, il divario arriva fino ad un 86% per quello dirigenziale. Stesse funzioni, stesse responsabilità ma un diverso trattamento economico. Le donne vengono anche promosse di meno, restano destinate a settori in cui si pensa che abbiano più capacità rispetto ai colleghi maschi, escludendole pregiudizialmente da altri. Si dice che le donne non siano in grado di gestire situazioni complesse come un uomo, che abbiano un pensiero meno strategico, anche se però sono più brave a costruire squadre, al problem solving, alla flessibilità. Gli stereotipi sono devastanti ma la colpa non è attribuibile solo al men’s club dominante, i club maschili che determinano tante scelte. I ricercatori sono concordi nel ritenere che spesso vi è una auto selezione femminile. Il soffitto di cristallo, quella sottile barriera, solida ma invisibile, che blocca un percorso di ascesa è una faccenda sfaccettata. Molto spesso il rallentamento nelle promozioni è frutto anche di una predisposizione tutta femminile a non lanciarsi in settori percepiti come troppo onerosi in termini di tempo, preferendone altri con orari più ridotti. Le donne sembrerebbero predisposte a non mettersi in gioco fino in fondo.

È davvero cosi? La sintesi arriva dal professor Cutillo: «Le donne - tendenzialmente - purtroppo si auto promuovono di meno in azienda, si propongono con meno impeto degli uomini di fronte ad una nuova avventura, negoziano di meno con i capi in termini di promozioni. Abbiamo riscontrato che se un uomo possiede il 50 per cento delle caratteristiche richieste per un certo ruolo dirigenziale, tende a candidarsi subito. La donna si mostra più precisa, più frenata e questo non la agevola. Non si tratta di uno stereotipo ma di un comportamento che finisce per determinare molte carriere». Questo fa sì che le donne sul lavoro perdano importati treni, opportunità preziose, per la paura di non essere all’altezza. 

AUTOESCLUSIONE
Il termine tecnico che viene usato dai ricercatori è “clusterizzazione orizzontale”, in pratica è l’auto esclusione e chissà se questo procedere con il freno a mano tirato ha a che fare con la mancanza di autostima che la maggioranza del mondo femminile nasconde. L’incapacità di credere in sé stesse, quella terribile insicurezza del confronto, del giudizio, di qualcosa che si preferisce evitare. Parlare di gender gap non è per niente semplice perché significa allargare lo sguardo all’orizzonte includendo ogni fattore possibile, compreso quelli di tipo culturale, alla base degli archetipi sui quali si sono sviluppate tante dinamiche da correggere. Senza contare poi lo stereotipo negativo per eccellenza, quello che ha a che fare con le madri lavoratrici, un cliché che è difficile da sradicare nella mente (compreso quella delle donne).

Le ambizioni di carriera restano indietro anche per le distorsioni mentali che si sviluppano attorno. Il cammino da fare è lungo e non si tratta solo di superare i divari numerici. Ancora più importante è arrivare, un giorno, alla costruzione di un tessuto sociale e aziendale capace di fare interagire uomini e donne in modo complementare, per raggiungere risultati migliori. Per un clima migliore.
 
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