Alessandro Campi
Alessandro Campi

Elettori e alleanze/ Il crescente scricchiolio nel pianeta giallo-verde - di Alessandro Campi

di Alessandro Campi
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Martedì 30 Aprile 2019, 00:42
L’appuntamento elettorale siciliano ha coinvolto trentaquattro Comuni (uno solo dei quali capoluogo di provincia) e mezzo milione di cittadini. Davvero troppo pochi – visto anche il basso afflusso al voto (58,4%) – per vedere in questo test l’anticipazione di tendenze nazionali. L’idea che esistano territori che agiscono come laboratori politici, se mai è valsa per il passato, oggi lascia il tempo che trova: con gli elettorati che si spostano con rapidità da una parte all’altra dello spettro politico, e che tendono a disertare in massa le urne, ogni consultazione ormai fa storia a sé. 

La verità è che oggi a chi osserva la politica si addicono, più che i panni dello scienziato sociale che opera previsioni a partire dai numeri e dalle serie storiche, quelli del sensitivo o dell’aruspice, che prova a immaginare il futuro partendo da semplici segnali o da labili indizi. Che nel caso siciliano non sono mancati e che proviamo a indicare con l’invito a non trarne conclusioni inutilmente affrettate.

La Lega, presentatasi quasi ovunque da sola, ha certamente ottenuto un buon risultato: ha guadagnato diversi ballottaggi (Gela, Mazara del Vallo) e conquistato a Motta Sant’Anastasia il suo primo sindaco. Ma la sua non è stata un’avanzata trionfale (forse più paventata e temuta dai suoi avversari che sperata e attesa dagli stessi leghisti).

Con una forza media intorno al 20-25% per essere vincente la Lega deve comunque allearsi con gli altri partiti di centrodestra. Che a dispetto di certe previsioni nefaste continuano a mostrare una discreta vitalità politica: senza la Lega sono infatti andati al ballottaggio a Caltanissetta e Castelvetrano. 
Per Salvini, prendendo per buoni i flebili segnali che vengono dall’isola, sembrano porsi in prospettiva tre questioni: quanto sia realistica la sua scommessa sull’ineluttabile dissoluzione del mondo moderato-berlusconiano e sulla possibilità di diventare politicamente autosufficiente a spese di quest’ultimo; quanto la battaglia sull’autonomismo territoriale che ha recentemente rilanciato (una sorta di ritorno alle origini del leghismo nordista e anti-centralista) possa incidere negativamente sul suo progetto di una Lega nazionale in grado di raccogliere voti anche nel Meridione; quanto il riempire piazze con schiere di ammiratori in fila per un selfie si traduca poi in voti effettivi (la popolarità mediatica non è la stessa cosa che il consenso politico e Salvini farebbe bene a rendersi presto conto della differenza che c’è tra reale e virtuale). 

Dal voto siciliano esce sicuramente confermata la decrescita infelice del M5S da una votazione all’altra. Andrà al ballottaggio a Caltanissetta (dove però è avanti il candidato del centrodestra) e Castelvetrano, ma nel frattempo ha perso i sindaci che aveva a Gela e Bagheria. Esaurita l’eccezionale spinta propulsiva delle politiche del 2018, che in Sicilia si era tradotta in percentuali vicine in certi casi al 60%, la questione che Di Maio e il vertice del movimento debbono al più presto affrontare è quella relativa alla necessità di aprirsi ad alleanze e accordi sul territorio, rinunciando anche in questo caso ad una pretesa di autosufficienza che rischia di condannarli ad una perpetua opposizione e a ripetute sconfitte.

Insomma, contaminarsi per provare a vincere e governare, sfruttando a proprio favore – come già fanno gli altri partiti – lo strumento delle liste civiche che ormai proliferano ad ogni consultazione locale. E che quando non sono un’espressione dell’anti-politica sono per i partiti tradizionali in crisi di legittimità una buona stampella. A meno di non pensare, nel caso del M5S, che la fragile alleanza con la Lega a livello nazionale possa un giorno tradursi, a dispetto dei quotidiani litigi nel governo e delle previsioni di un inevitabile divorzio dopo le europee, in un patto di potere anche a livello amministrativo: ipotesi ardita ma non del tutto fantascientifica, visto che nei giorni scorsi è stata adombrata dallo stesso Di Maio in previsione delle elezioni regionali in Umbria, anticipate al prossimo ottobre-novembre dopo le traumatiche dimissioni della governatrice Marini. Lega e M5S alleati per prendersi senza sforzo la più rossa delle regioni rosse?

Creare un fronte politicamente ampio ricorrendo al civismo politico (dove però spesso si insinuano il personalismo e l’affarismo) è quello che in Sicilia ha fatto ad esempio il Partito democratico, forse esagerando. Il suo simbolo è stato ufficialmente utilizzato solo a Castelvetrano (dove ha ottenuto un deludente 17% restando così fuori dal secondo turno). La sinistra è andata assai meglio a Bagheria (dove ha vinto al primo turno) e a Mazara del Vallo (dove è andata al ballottaggio), ma il prezzo pagato è stato appunto la rinuncia del Pd a correre col proprio nome. Lo si ritiene così poco competitivo e attraente da doversi sempre più mimetizzare, specie sul territorio, all’interno di alleanze in senso lato civico-progressiste? Per Zingaretti è un bel rischio quello di trasformarsi nel liquidatore del partito che ha appena conquistato. 

C’è infine la vicenda più eccentrica di questo voto, che ha riguardato Gela, dove tra quindici giorni andranno al ballottaggio il candidato sostenuto da una lista con dentro Forza Italia (tendenza Miccichè) e il Partito democratico e quello appoggiato dalla Lega (insieme a Fratelli d’Italia ed alcuni dissidenti forzisti). Sembrerebbe una riedizione del “milazzismo” storico ma a parti invertite: nel 1958 le due ali estreme, comunisti e missini, unirono le forze per sconfiggere il candidato centrista alla guida dell’Assemblea regionale siciliana; in questo caso liberal-conservatori di destra e progressisti si sono alleati per arginare il leghismo sovranista e in generale l’onda populista. 

Anche questo curioso esperimento può essere visto, a costo di forzare un po’ le cose, come un segnale. In particolare dei cortocircuiti che attraversano la politica odierna, a partire da quella italiana. Lega e M5S, pur con programmi e obiettivi diversi, si sono uniti nel segno del radicalismo anti-sistema. Per reazione le forze politiche laico-moderate e social-riformiste sono tentate dal fare fronte comune, per quanto anch’esse siano divise nei programmi e negli obiettivi. Ma quelle che nascono sono alleanze innaturali, veri e propri ibridi politici da laboratorio, che non producono cultura di governo, ma contrapposizioni finte e convergente strumentali. A Gela, a Roma, ma dopo il 26 maggio anche a Bruxelles con la divisione tra sovranisti e europeisti che pare destinata a prendere il posto di quella tradizionale tra destra e sinistra, ma al prezzo di una confusione delle lingue che rischia di farci rimpiangere quest’ultima.
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