Carlo Nordio
Carlo Nordio

Oltre la Liberazione/ Mal di patria, un Paese forte non si divide sulla Capitale

di Carlo Nordio
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Venerdì 26 Aprile 2019, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 07:37
I filosofi della storia ci ammoniscono che devono passare almeno cent’anni prima che la cronaca possa diventare storiografia, perché solo il tempo, padre di verità, stempera le passioni e consente, nei limiti del possibile, una ricostruzione imparziale dei fatti. Non c’è dunque da stupirsi se ancora oggi il 25 Aprile è visto sotto prospettive diverse e talvolta opposte. Poiché tuttavia questa data contrassegna la fine di una guerra disastrosa e fratricida, ogni buon cittadino dovrebbe almeno riconoscerne l’importanza e il valore. E invece quella che dovrebbe essere l’occasione di una festa unitaria e di una riflessione costruttiva degenera ogni anno in polemiche sterili e in accuse faziose. Perché questo avvenga è difficile dire: ma possiamo formulare alcune ipotesi.

La prima è che, in effetti, si tratta di una data convenzionale, perché non rappresenta la fine della guerra, che proseguì ancora una settimana con combattimenti ed eccidi, ma l’ordine di insurrezione del Comitato di Liberazione. Insurrezione generale che nemmeno ci fu: nella stessa Milano, le SS dell’Hotel Regina attesero tranquillamente gli Alleati, ai quali si arresero il 30 Aprile con tutte le garanzie di impunità. Di conseguenza molti non identificano questo giorno con la fine delle ostilità, ma come un evento politico di un gruppo di partiti. 

La seconda è che questa rappresentazione “politica” è stata - negli anni successivi - enfatizzata sino al travisamento. Da un lato, raccontando che l’Italia si era liberata da sé, e dall’altro attribuendone il merito a forze prevalentemente comuniste, o comunque di sinistra. Questa distorsione storica, enfatizzata dallo sventolio di bandiere rosse che per decenni hanno sostituito nelle piazze il tricolore, ha offeso tutte le forze liberali, cattoliche, monarchiche e anche apolitiche che si sono sentite estromesse da una celebrazione cui avevano tutti i titoli per partecipare da protagoniste. Non solo. Le centinaia di migliaia di ufficiali e soldati internati in Germania, e sottoposti a vessazioni crudeli per aver rifiutato di arruolarsi tra i repubblichini sono state ignorate al limite del vilipendio. Tutti ricordiamo, o dovremmo ricordare, i fischi sinistri indirizzati a Letizia Moratti il 25 Aprile del 2006 mentre spingeva la carrozzina del padre, ex partigiano deportato a Dachau. Non c’è da stupirsi che molti da quel giorno disertino le cerimonie, senza per questo nutrire nostalgie mussoliniane.

La terza è che la Resistenza non fu un fenomeno ,come si dice, di massa. Il popolo aiutò sì i partigiani, ma non ne condivise la strategia, che spesso provocava reazioni sproporzionate e feroci da parte dei nazifascisti. La gran parte degli italiani aspettò rassegnata e impaziente l’arrivo degli angloamericani, e tributò a loro, più che ai nostri combattenti, i trionfi della liberazione. Orbene, finché non ammetteremo questa realtà, forse antipatica, ma comprensibile, avremo della Resistenza una visione alterata. Ed è questa deformazione che determina l’impossibilità di ricondurre il 25 Aprile al suo significato reale e, auspicabilmente, unitario e condiviso. Sino a quando, da una parte, si continuerà ad accusare di revisionismo criptofascista chiunque si accinga a ricostruzioni in contrasto con la vulgata ufficiale; sino a quando, dall’altra parte, si continuerà a sminuire o a deridere questo evento come se il sangue di tanti patrioti fosse stato versato invano; sino a quando, infine, non si riconoscerà alla Resistenza il suo carattere militarmente modesto ma moralmente importante e unitario, continueremo a cadere nelle polemiche e giocare sulle ambiguità.

Che fare allora? Una volta tanto, copiare i francesi, divisi anche più di noi sull’interpretazione di Vichy e della loro Resistenza, ma vincolati da un fortissimo senso identitario. Anche loro ebbero in De Gaulle un portavoce molto più parziale e trombone dei nostri maestri di retorica. La sua allocuzione su Parigi “liberatasi da sola” è un stupidaggine declamatoria e un’offesa alle armate americane. Ma era giustificata da uno straordinario vigore patriottico davanti al quale anche la verità storica talvolta può cedere per la coesione nazionale. Quella coesione che ha indotto i francesi a commuoversi davanti Notre Dame in fiamme, e a finanziarne subito la ricostruzione, senza domandarsi, in nome di una esasperata par condicio, se le altre chiese di Francia fossero o meno meritevoli di restauro. Un insegnamento anche per quelli di noi che guardano al debito di Roma come se si trattasse di pastrocchio provinciale, mentre la dignità e il decoro della nostra capitale è molto di più del biglietto da visita per i turisti, perché è il riflesso dell’amore per il nostro Paese. Forse una più lungimirante visione per la risoluzione di questo problema costituirebbe un sintomo di quella coesione che ancora non riusciamo a trovare nelle celebrazioni del 25 Aprile. 
 
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