21 aprile 753 a.C, quel mito condiviso che ha cambiato la faccia della storia

21 aprile 753 a.C, quel mito condiviso che ha cambiato la faccia della storia
di Giorgio Piras
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Domenica 21 Aprile 2019, 00:06 - Ultimo aggiornamento: 10:06
«Romolo gettò le fondamenta delle mura nell’undicesimo giorno precedente le calende di maggio, tra la prima e la seconda ora». La notizia era conservata nella Raccolta di cose mirabili dello scrittore di epoca tarda Solino (III sec. d.C.). L’orario preciso dell’evento (poco dopo l’alba) permetteva agli esperti di fare l’oroscopo alla città: Roma sarebbe stata fondata con Giove nei Pesci, Saturno, Venere, Marte e Mercurio nello Scorpione, Sole nel Toro, Luna nella Bilancia (ma già Cicerone ironizzava su questa affermazione). La data di fondazione, il 21 aprile, era divenuta ormai da tempo tradizionale. Sappiamo infatti quanto i Romani tenessero a ricordare l’evento. Ce lo spiega bene Cicerone. Nel De re publica fa pronunciare a Scipione l’Emiliano, il condottiero che sconfisse definitivamente Cartagine, un importante discorso in cui afferma che l’inizio dello stato romano era tam clarum ac tam omnibus notum (‘così illustre e così noto a tutti’). Si trattava di una leggenda «sapientemente tramandata dagli antenati», preservata ‘con cura’, ma anche ‘con lungimiranza’ (sapienter), perché uno stato si costruisce solidamente e si mantiene a lungo avendo ben chiaro quali siano le fondamenta su cui si basa. Preservare i miti sulle origini - anche al di là della loro effettiva aderenza alla realtà storica – allora come oggi non vuole dire solamente nobilitare gli inizi di una città, di uno stato, magari umili e magari anche poco presentabili, ma significa attribuire al passato un’esemplarità in cui tutti si possono e si devono riconoscere. Queste leggende costituiscono il cardine dell’identità collettiva e divengono stimolo per ulteriori racconti e riflessioni. Non mancavano tra gli antichi variazioni, correzioni e ampliamenti della storia di Romolo e Remo e della fondazione della città. E non tutti erano completamente certi che le cose fossero effettivamente andate in tal modo. Ma la tradizione era così consolidata e gli esiti storici di quell’evento mitico erano così imponenti che la leggenda poteva sì essere dibattuta, ma senza essere mai cancellata del tutto. Così avviene per tanti racconti mitici che siamo abituati a sentire sin da bambini e spesso a mettere in discussione da adulti, ma a cui rimaniamo affezionati e ci fanno sentire noi stessi, ci fanno riconoscere di appartenere alla stessa comunità. 

DATA PROPIZIA PER TUTTI
Il fatto stesso che oggi – così come i Romani antichi - ricordiamo ancora un evento mitico avvenuto oltre duemila e settecento anni fa, viviamo e siamo circondati da immagini e monumenti che risalgono in ultima analisi a quel mito testimonia che esiste un passato lontano cui è possibile fare riferimento ed è talmente radicato da poter essere festeggiato. Ogni romano, ogni italiano, nuovo o antico, può legittimamente sentirsi autorizzato a celebrare il 21 aprile come una sua festa e a riconoscersi in essa.

Quel giorno, l’undicesimo precedente le calende di maggio, era ritenuto quello di fondazione della città almeno già dall’età di Cicerone. I Romani ne festeggiavano la ricorrenza – probabilmente secondo un uso di origine greca – proprio come fosse quello della nascita di una persona. È significativo che la data coincidesse con quella della festa pastorale di primavera dei Parilia (o Palilia), che serviva a propiziare la fertilità del bestiame. Certamente quel giorno era adatto per l’inizio di una nuova città fondata e abitata essenzialmente da pastori. Su questo non vi erano dubbi: «pastori, benché figli di un dio, sono allevati e vivono da pastori: chi può dubitare quindi che il popolo romano sia sorto da pastori?». La domanda che si pone il grande erudito Varrone nel suo libro sull’agricoltura riferendosi a Romolo e Remo è una domanda retorica a cui ogni romano avrebbe risposto con sicurezza. Non solo pastori però, ma anche servi e ribelli. Per questi ultimi Romolo creò un ‘asilo’ sul Campidoglio dove si potevano rifugiare, una idea che permise di incrementare non poco la popolazione romana, senza distinzione tra uomini liberi e schiavi. L’incremento demografico sarà uno degli obiettivi perseguiti consapevolmente da Romolo anche, in seguito, con la fusione con i Sabini di Tito Tazio (grazie al celebre ‘ratto’). Romolo all’origine era accompagnato infatti solo da un ristretto manipolo di esuli Albani e per creare una grande città, aveva bisogno di far crescere la popolazione. Roma sorgeva infatti come ‘colonia’ di Alba Longa, la città sui colli albani che gli antichi ricollegavano alla discendenza di Enea in Italia, dove nacquero e poi crebbero i due gemelli dopo essere stati raccolti sulle sponde del Tevere. Questa ‘derivazione’ da un’altra città è evidente ed esplicita soprattutto nei racconti delle fonti greche, abituate al fenomeno della colonizzazione (un fenomeno tipicamente greco nel Mediterraneo). La città viene cioè fondata ex-novo, ma non nasce dal nulla, come del resto ci viene confermato dalle scoperte archeologiche moderne che ci svelano sempre di più della Roma antica e antichissima, anteriore cioè al periodo di fondazione del nuovo abitato. La città è nata e cresciuta grazie agli apporti e alle confluenze e mescolanze di tante popolazioni e di tante tradizioni. Così è avvenuto anche per la Roma moderna nei momenti di massima crescita, per esempio dopo l’unità d’Italia o dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando ha attratto residenti da tutto il paese. Questa modalità di incremento della popolazione non è solo un fenomeno demografico, ma anche culturale ed è forse una delle caratteristiche principali della civiltà e della civilizzazione romana. Era chiaro agli antichi, anche nei periodi di massima espansione e dominio sul mondo conosciuto: il mondo romano è stato multietnico e multiculturale, unitario solo per alcuni aspetti, come la lingua ufficiale e della letteratura. Riconoscere influenze, prestiti e apporti esterni non ha mai costituito un vero problema per i romani, tranne qualche sporadico episodio di rivendicazione dell’origine autoctona di un’istituzione, un rito, un fenomeno. 

La ‘colonia’ Roma viene fondata sulla base di un patrimonio di conoscenze proveniente dall’Etruria, secondo modalità che erano diffuse in tutto il Lazio. Celebre è il rito dell‘aratura di un solco per costituire il perimetro della città e il tracciato delle future mura, «congiunti un toro e una vacca… per motivi rituali in un giorno in cui avevano tratto gli auspici». La dimensione laziale è importante per i romani perché permette di recuperare il patrimonio italico, cioè ‘pre-romano’, ma anche – collegandosi ai luoghi dell’arrivo di Enea sulla costa del Lazio – di rinsaldare il rapporto con il mito della discendenza dagli sconfitti profughi Troiani, un mito molto antico. Ci si insistette in particolare sotto Augusto e fu fondamentale la narrazione che ne fa Virgilio nell’Eneide.

IL RITO
L’aratura del ‘solco primigenio’ costituiva per i romani il punto di partenza di ogni nuovo insediamento e le mura assumevano un valore simbolico rilevante per i nuovi abitanti, rappresentavano in sostanza la città stessa. Le mura difensive furono una caratteristica degli insediamenti antichi e medievali e la Roma medievale e papalina si presentava a chi si avvicinava ad essa come una città fortificata, un’immagine ora svanita nella sensibilità comune. Il rito di fondazione di Roma divenne il modello seguito per tutte le sue colonie: quella cerimonia e la conseguente organizzazione dello spazio divenne cioè uno schema replicabile potenzialmente all’infinito, esso stesso una tradizione da preservare. Nell’Eneide il rito di fondazione di una città è tentato sempre da Enea in prima persona, suggerendo ai lettori di scorgere in lui una anticipazione del vero fondatore Romolo, colui che riuscirà creare la ‘nuova Troia’ in Italia. I due miti sono collegati e prefigurano nel discendente Augusto il fondatore di un’epoca nuova per Roma. Molti poi nella storia hanno cercato di identificarsi con Augusto o con Romolo per presentarsi come iniziatori di una nuova era, per lo più con esiti infelici.
Ma quel 21 aprile è anche segnato dall’uccisione di Remo, collegata direttamente alla fondazione: molti raccontano che fu la conseguenza del gesto irridente da parte del gemello ‘sconfitto’, il salto della piccola fossa prodotta dall’aratro di Romolo. Per alcuni fu lui in persona ad uccidere il fratello esclamando: «così capiterà a chiunque attraverserà le mie mura». 

IL FRATRICIDIO
Un fratricidio accompagna così ai primordi la nascita di Roma e ne segna la storia successiva, anticipato nel mito dalla contesa per il trono di Alba tra i fratelli Amulio e Numitore, avi di Romolo e Remo. L’uccisione di Remo rappresentò sempre per i Romani un problema aperto, in particolare nel periodo della fine della repubblica e delle guerre civili. La figura di Romolo, fondatore e fratricida, venne vista con diffidenza, anche perché primo re in un momento di rischi per le libertà repubblicane. La bramosia del potere, la cupido regni, determina il male antico della discordia, della contesa tra fratelli o consanguinei. Anche questa è una riflessione che la tradizione classica ci lascia in eredità, collegandola in maniera così indissolubile al momento della nascita della città, quasi uno stigma indelebile. Grandi sono quindi le potenzialità dal punto di vista simbolico della celebrazione di questa ricorrenza e i significati che si attivano nel rievocarla. Ha affascinato molti e in tanti non si sono sottratti alla ricorrenza, con i rischi che ciò comportava. Uno dei tanti esempi che si possono fare è quello della pubblicazione del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto dal filosofo Giovanni Gentile, ministro dell’istruzione del primo governo Mussolini e tra i massimi artefici della politica culturale del fascismo. Il manifesto di sostegno degli intellettuali al nascente regime a cui aderirono in molti fu pubblicato, non casualmente, il 21 aprile del 1925 e non fu casuale che ad esso rispose Benedetto Croce il 1 maggio con il suo celebre manifesto in cui si chiamavano a raccolta gli intellettuali antifascisti. Croce e Gentile erano stati molto legati anche dal punto di vista personale, da antica e ‘fraterna’ amicizia, e questa contesa fu foriera di tragici sviluppi per la cultura e la società italiana. La forza e la portata della tradizione classica si misura anche dagli usi, e dalle distorsioni, che vengono fatti dei suoi simboli.
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