Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

Trucchi elettorali/ Strada obbligata, fanno soltanto finta di litigare

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 18 Aprile 2019, 00:00
A tutti è nota la strategia di Quinto Fabio Massimo: temporeggiare, attendendo che il nemico si logori. Devono averlo capito bene Salvini e Di Maio: solo che invece di applicare la regola del Cunctator contro un nemico esterno, sembrano essersi presi reciprocamente di mira. Da un lato, evitando di prendere decisioni fondamentali ma dal sapore impopolare; dall’altro, bloccando la propaganda dell’alleato attraverso veti incrociati. Naturalmente, la vittima di questa infinita attesa non può che essere il Paese. 

L’ultima applicazione esemplare di questa regola la si sta osservando in questi giorni, in riferimento principalmente all’Iva. Il ministro Tria, con una chiarezza che rasenta l’ovvio, dichiara che le imposte sui consumi (l’Iva, ma anche le accise sulla benzina) aumenteranno a partire dal 2020; del resto, ciò è stato messo nero su bianco anche nel Documento di Economia e Finanza appena approvato. A meno che, continua il ministro, non si trovino risorse alternative.
Visto che alla patrimoniale questo governo sembra avere rinunciato (e, a ben guardare, di imposte patrimoniali ne esistono già moltissime - benché incoerenti e disordinate - nel nostro ordinamento), gli altri canali sono quelli di nuove entrate, minori spese e lotta all’evasione.

Sul fronte delle entrate, per quanto riguarda l’imposta sul reddito delle persone fisiche, l’orientamento del governo è quello di andare verso la flat tax, o perlomeno verso una diminuzione del numero di scaglioni dell’Irpef: un’operazione ancora dai contorni indefiniti e controversi. 

Indipendentemente dall’opinione che della flat tax si può avere, dunque, l’unica certezza è che, se sarà attuata, porterà meno risorse e non certo di più. Per quanto riguarda l’imposta sul reddito delle società, risulta già sufficientemente stucchevole il passo indietro del governo, che si è rimangiato con il decreto “crescita” quanto scritto pochi mesi prima nella Legge di bilancio. Non resta dunque che l’Iva. Di Maio e Salvini da una parte fanno finta di litigare con il realista Tria che definisce ineluttabile l’aumento delle aliquote per far fronte al necessario aumento di gettito, dall’altra negando qualunque aumento cercano di rassicurare l’elettorato in vista del voto europeo che potrebbe ribaltare i rapporti di forza tra i giallo-verdi. 

Ma la realtà è un’altra: e cioè che insieme all’Iva aumenteranno anche le accise, proprio quelle odiose imposte specifiche che secondo Salvini avrebbero dovuto essere eliminate al primo Consiglio dei Ministri ma che invece resistono a discapito di ogni proclama di riduzione della pressione fiscale. 

Inoltre, vale la pena di notare che, a differenza dell’Irpef, la base imponibile dell’Iva (vale a dire i consumi) è distribuita in maniera più omogenea sul territorio. In questo senso sarebbe meno iniqua di altri aumenti di imposta. Ci si augura invece che non si pensi di aumentare ulteriormente il deficit: ci manca solo una procedura di infrazione a livello europeo a peggiorare il quadro di crescita zero e di pessimismo di questo Paese. 

Gli economisti sanno bene inoltre che le entrate potrebbero aumentare anche senza ritoccare le aliquote: basterebbe stimolare la crescita economica. Per esempio incentivando gli investimenti. Cosa che sarebbe dovuta avvenire con la manovra d’autunno, come più volte inascoltati abbiamo suggerito su queste colonne. Ma proprio qui casca l’asino e si ha un altro esempio di come l’indecisione dei temporeggiatori stia bloccando il Paese: che fine hanno fatto i decreti “crescita” e “sblocca cantieri”? 

Dopo innumerevoli correzioni, erano in attesa di una firma da parte del Presidente della Repubblica che tuttavia, a quanto risulta, ancora non c’è stata né ci sarà, a meno di un nuovo passaggio sul tavolo di Palazzo Chigi per stilare un testo definitivo. Non che siano provvedimenti risolutivi. Ma a maggior ragione, se anche degli interventi relativamente deboli risentono dei contrasti nella maggioranza, si può immaginare il destino di scelte che sarebbero veramente rivoluzionarie. Come, ad esempio, quella di una decisa revisione della spesa. 

L’unica vera esperienza di revisione della spesa nel nostro Paese si è avuta nel 2012/2013 con Carlo Cottarelli, la cui commissione delineò un percorso impegnativo che avrebbe portato, nel giro di tre anni, a risparmi strutturali massimi (avrebbe poi deciso la politica quanti e quali) di 32 miliardi. I lavori di quella commissione finirono in un cassetto e mai furono utilizzati dalla politica. Vaneggiare che in poco tempo si possano ottenere risparmi elevati significa non aver capito cosa sia la spending review e confonderla con dei semplici tagli lineari, più semplici ma che rischiano di buttare via il bambino con l’acqua sporca. 

Se si accetta un suggerimento, il punto da cui cominciare a effettuare la revisione è quella degli sconti fiscali legati all’Irpef, un tesoretto da almeno 60 miliardi l’anno che merita di essere riordinato. E tornando alle scelte rivoluzionarie: che fine ha fatto la lotta all’evasione fiscale? Ogni anno vengono evasi imposte e contributi per oltre cento miliardi di euro, vale a dire più della metà dell’intero gettito Irpef. Ma fare la lotta all’evasione significa toccare interessi molto forti, ben diffusi tanto al nord quanto al sud del Paese (lavori senza fattura da un lato, lavoro nero dall’altro). Di certo, una strategia che richiede decisione e forza, impraticabile per chi temporeggia in attesa di nuove e elezioni o di nuovi soggetti a cui addebitare i propri fallimenti.
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