Lampi
di Riccardo De Palo

"White" di Bret Easton Ellis: la voce più scomoda d'America è tornata

Bret Easton Ellis, 55 anni
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Mercoledì 17 Aprile 2019, 22:15
Bret Easton Ellis è una delle voci più controcorrente della cultura americana. Ha scontato sulla propria pelle ogni genere di anatema, spesso con noncuranza, altre volte con rabbia. Ma è sempre lui a difendere più di ogni altro, con il rifiuto del politicamente corretto, la libertà di parola, sua come di chiunque altro. «Quando abbiamo cominciato a identificarci nelle vittime, e a usare questo punto di vista senza sosta, per giudicare qualsiasi cosa?», si chiede. Il suo nuovo libro, "White", pubblicato ieri negli Usa, è difficilmente classificabile, in un vasto range letterario che va dal memoir al saggio politico. Ma dopo essere stato oggetto di tiro al bersaglio (magari per un tweet preso troppo alla lettera, o per un libro come "American Psycho" che va preso per quello che è, finzione romanzesca), Ellis torna all'attacco, contro l'isteria di certa sinistra, chi fa del razzismo un'ossessione, e chi si preoccupa (troppo) di Donald Trump. Perché l'America, in fondo, è affetta da un «narcisismo post-imperiale» che è molto peggio del precedente, sostiene.

"White" è il primo libro di non-fiction che rompe il suo silenzio letterario, a nove anni da Glamorama. Ellis è, appunto, un bianco americano, che ha appena compiuto 55 anni: appartiene a quella Generazione X che non capisce proprio i millennial (lui stesso ha condiviso lo stesso tetto con una persona più giovane, accumulando incomprensioni e rancori), e osserva impietosamente questa America polarizzata e affetta dalla coazione al consenso (al like), che decide a chi destinare la damnatio memoriae, che sia Roseanne Barr, l'attrice di sit-com che per un tweet considerato offensivo nei confronti degli afroamericani è stata licenziata dalla Disney, o il rapper Kanye West, messo all'indice per aver osato difendere l'operato del presidente.
 
«Per favore, solo feedback positivo». Ellis ricorda un articolo che scrisse qualche anno fa, in cui coniò la definizione Generation Wuss, e cioè generazione di inetti, per i ventenni di oggi, che suscitò polemiche senza precedenti. L'idea era di ridicolizzare l'atteggiamento, da lui osservato, di tanti millennial, incapaci di sopportare la disapprovazione o le critiche altrui, in un Paese «incline all'auto-commiserazione».

L'autore rammenta quello che considera un punto di svolta: quando, nel 2015, almeno duecento membri del PEN club, l'organizzazione a cui appartengono molti scrittori americani, cercarono di non conferire un premio ai sopravvissuti dell'attacco a Charlie Hebdo, intitolato alla libertà d'espressione, in nome del politicamente corretto. Questi autori, secondo Ellis, avevano scelto «di tracciare una linea in cui la libertà di parola poteva cominciare e un'altra in cui doveva finire».

Ellis scrive anche di un altro momento traumatico, per molti dei suoi conoscenti e per il suo stesso partner millennial: le elezioni che hanno tolto la Casa Bianca ai democratici e l'hanno consegnata a Donald Trump: «Il palazzo abitato da elitari liberal ossessionati dall'identità era, dopo otto anni di stile obamiano alla moda e ragionevole, in fase di decostruzione, da parte di disturbatori che avevano preso il potere e che giocavano secondo regole completamente nuove». La narrazione era cambiata e in tanti invocavano alla Resistenza. Ellis in American Psycho aveva raccontato le gesta di un serial killer, Patrick Bateman, che, nel mondo dorato della New York degli anni Ottanta, vedeva Trump come un idolo. E per scriverne, aveva molto studiato il personaggio dell'attuale comandante in capo; ma alle elezioni, ammette, non ha nemmeno votato.

Le proteste post elettorali, annota, non avevano il solito sapore di sconfitta, ma di «paura, orrore, oltraggio»; e c'era chi faceva grande uso di parole come «hitleriano», «apocalisse». Era come se fosse stato eletto «il Joker de Il cavaliere oscuro», una macchina da insulti che colpiva chiunque. C'era persino Barbra Streisand, che lamentava di essere ingrassata per colpa di Trump.

Ellis ha visto il Paese scindersi in due anime distinte, in cui le parole giusto e sbagliato avevano significati opposti. Lo scrittore ne parlò a una cena con persone che ammettevano di avere votato repubblicano, poi decise di twittarlo: un putiferio. White (che dovrebbe essere tradotto da Einaudi e pubblicato in data da definire) racconta anche altre polemiche celebri, come quella (storica) che riguarda la presunta grandezza dell'opera di David Foster Wallace. Per avere disturbato la sua «canonizzazione post-suicidio» si beccò un altro anatema. Ma Ellis racconta anche qualcosa di più personale. Il malore improvviso, un'estate, quando si ritrovò in ospedale senza capirne il perché; le attenzioni (e le ripetute missive) indesiderate di uno stalker. Oggi, forse, si potrebbe leggere "American" Psycho come un unico grande selfie del Paese, una lunga catena di like e dislike, del protagonista e del suo autore. La fotografia di una nazione che sembra una «scuola di pazzi in cui gli studenti gettano qualsiasi cosa addosso a chi viene nominato presidente».
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