​Ue, vinta la prima battaglia, non la guerra del copyright

Ue, vinta la prima battaglia, non la guerra del copyright
di Osvaldo De Paolini
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Mercoledì 17 Aprile 2019, 03:00 - Ultimo aggiornamento: 11:03
Il Consiglio europeo ha dunque approvato, in via definitiva, le nuove norme sul copyright. Accanto alla delusione per il voto contrario dell’Italia a guida giallo-verde, che con quel pollice verso ha denudato il pensiero debole che anima i timori di quella parte di connazionali che temono un vulnus alla cosiddetta “democrazia diretta”, c’è il compiacimento per una innovazione legislativa che in Europa segna uno spartiacque storico. C’è però anche la consapevolezza che, salvo eccezioni, la Direttiva approvata non sarà legge nei singoli Paesi dell’Unione prima dell’estate 2021, il che nell’economia digitale significa un’era geologica. È infatti tecnicamente impossibile dire oggi se, per allora, le nuove regole saranno ancora utili a governare un fenomeno – la circolazione dei contenuti online – che realisticamente presenterà tratti assai diversi.

Inoltre, poiché la Direttiva dovrà essere recepita in tutti i Paesi membri attraverso una serie di provvedimenti nazionali, è facile ipotizzare che, complice l’approssimazione di alcune disposizioni in essa contenute (tipica di una lunga e difficile mediazione), genererà ventisette leggi diverse, trasformando alcuni Paesi dell’Unione in isole felici per i titolari di diritti; e altri Paesi in paradisi per i gestori delle piattaforme, con buona pace per l’ambizione europea a un mercato unico digitale.

Insomma, chi pensa che il più sia alle spalle e che ora si tratta solo di calare i regolamenti attuativi nel vivere quotidiano, commette una grossa ingenuità. Perché se è vero che il buongiorno si vede dal mattino, il voto contrario espresso a Bruxelles dal governo italiano - peraltro in buona compagnia visto che anche Olanda, Svezia, Finlandia, Polonia e Lussemburgo hanno detto no - è il segnale che il nostro Paese faticherà non poco ad adeguarsi alla volontà europea, ostacolando un salto epocale che avrebbe tra l’altro il merito di produrre non modeste ricadute sul nostro Pil. Solo un radicale cambio di mentalità in chi ci governa e una maggiore coscienza dei pericoli che si celano dietro la subdola dittatura dei colossi del web - che ti offrono gratis l’universo mondo virtuale - può infatti modificare una prospettiva che, sebbene non vedrà inerti il folto esercito dei creativi, oggi appare ancora confusa. Eppure il punto di partenza non ha nulla di oscuro, visto che si tratta di adeguare il diritto d’autore all’ecosistema digitale e alle sfide delle nuove tecnologie. Così come non è oscuro lo scopo: rafforzare con il vigore della norma diritti consolidati, oltre a promuovere un più maturo bilanciamento tra l’interesse dei produttori di cultura e quello generale, a salvaguardia - per esempio nel caso dell’editoria quotidiana - della stampa libera e pluralista e del giornalismo di qualità.

La tesi secondo cui le nuove regole rappresentano un bavaglio alla rete - propalata da piattaforme particolarmente vocate a fomentare le pulsioni popolari, come nel caso della Casaleggio/Rousseau - è un ridicolo gioco di prestigio utilizzato per meglio aggredire i corpi intermedi della democrazia, in virtù di un regime di anarchismo digitale alimentato da una pericolosa disinformazione sul reale stato delle cose. A denunciare gli enormi squilibri della rete sono però i numeri: quei numeri con i quali purtroppo l’emisfero giallo-verde sembra non avere grande dimestichezza. Basti dire che a proposito di copyright nel settore musicale, una recente ricerca dell’Università Statale di Milano rivela parametri della musica in streaming che più sbilanciati non si potrebbe: mentre Apple Music e Spotify (che utilizzano licenze) riconoscono rispettivamente 12 dollari e 7,5 dollari ai titolari di ogni mille stream, YouTube - che vanta un numero infinitamente superiore di utenti unici - paga 1,5 dollari. Per quanto tempo possono coesistere senza degenerare situazioni così smaccatamente agli antipodi in un mercato - l’industria artistico/culturale/mediatica - che in Europa fattura 1.000 miliardi con 11,6 milioni di addetti? Vito Crimi, sottosegretario all’editoria presso Palazzo Chigi, un Cinquestelle doc, sostiene che con le nuove regole europee - che obbligano i big del web a stipulare accordi economici con i produttori di informazione - si rischia di uccidere l’editoria minore (in particolare i quotidiani locali) perché priva della necessaria forza contrattuale nelle trattative con gli over the top.

E tuttavia vien facile osservare che queste critiche, alle quali si potrebbe obiettare che se l’offerta è allettante e di qualità non c’è big data che non ti corteggi, provengono da chi con un semplice tratto di penna ha deciso di cancellare Radio Radicale, così affondando uno straordinario strumento di informazione a motivo del taglio dei costi non ritenuti indispensabili, mentre è chiaro a tutti che lo scopo è far tacere una voce scomoda.
Quando il variopinto mondo dei social capirà che se ti offrono qualcosa gratis, vuol dire che il prodotto sei tu? Un’osservazione con copyright Steve Jobs, uno che di queste cose se ne intendeva.
 
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