Rami Shehata, eroe a 13 anni: «Su quel bus in fiamme ero certo di morire, pregavo Allah
e con il corpo proteggevo un’amica»

Rami Shehata con il padre
di Claudia Guasco
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Venerdì 22 Marzo 2019, 01:01 - Ultimo aggiornamento: 07:49

dal nostro inviato
CREMA Rami Shehata ha tredici anni, è nato a Milano, va bene in matematica, tiene alla Juve, ha la maglia di Dybala, ascolta la musica di Sfera Ebbasta e Mahmood, gioca a calcio nell’Excelsior, squadra di Cremona in seconda categoria. Non ha la cittadinanza italiana, ma nei prossimi giorni le cose potrebbero cambiare. «Oggi mi hanno chiamato da Roma, mi hanno detto che mi aspettano, che i ministri Salvini e Di Maio mi vogliono incontrare. Credo che questo sia un buon segno».

Così sarai italiano a tutti gli effetti.
«Ma io lo sono già, sono nato qui. Anche se sono integrato a metà: sono metà italiano e metà egiziano».

Cosa dirai al ministro Matteo Salvini?
«Per prima cosa di togliere la cittadinanza all’uomo che ci ha rapito e di farla avere più velocemente a me. E di non prendersela tanto con chi abita in Africa. Conosco africani buoni e africani cattivi e questo vale anche per gli italiani».

Tu, dopo quello che hai fatto sul pullman, sei diventato il buono numero uno.
«Ci facevamo forza tra di noi, io cercavo di salvare più persone possibile anche se in realtà mi vedevo già morto. Accanto a me c’era una mia compagna, per proteggerla l’ho fatta sedere all’interno. Eravamo sicuri che non saremmo usciti vivi da lì, ci siamo detti “ti amo”, ti voglio bene”, ci siamo quasi fidanzati. I nostri telefoni però sono bruciati sul bus e non ci siamo più sentiti né scritti».

È stata proprio la tua telefonata a far scattare i soccorsi.
«All’inizio abbiamo pensato a uno scherzo, ma dopo ha legato i professori e gli studenti davanti. Poi ha preso i telefonini di tutti, io sono riuscito a nascondere il mio così ho potuto chiedere aiuto. Ho chiamato due volte la polizia, tre volte i carabinieri, la mia professoressa e mio padre finché sono arrivati. A quel punto ho dato il telefono all’autista perché non si sentisse in pericolo, gli ho detto che l’avevo trovato per terra».

Sei stato coraggioso.
«Ho pensato solo ai miei compagni, volevo salvarli, ho cercato di tranquillizzarli, non mi importava cosa poteva succedere a me. Dopo aver parlato con mio papà mi sono messo a pregare, sono musulmano praticante».

Cosa hai imparato da questa brutta avventura?
«Che siamo una bella classe, siamo molto uniti e affezionati. Ciascuno ha fatto qualcosa, di grande o di piccolo. C’era chi scriveva sui vetri per chiedere aiuto alle altre macchine, mentre la mia compagna passava una bottiglietta d’acqua a tutti per bagnare la felpa e metterla sulla faccia, l’odore del gasolio ci faceva stare male. Ho imparato a conoscere i miei compagni e anche quelli che mi erano antipatici ora non lo sono più. Ho capito ci vogliamo bene e anche la prof Cavalli, che è la più cattiva, ci vuole bene».

Il vostro aggressore ha detto di volerlo fare per l’Africa e anche tu sei un po’ africano.
«Ma cosa c’entriamo con i migranti noi che stavamo andando a scuola? Con il suo gesto quell’uomo non ha guadagnato proprio niente. Anzi, ha perso la sua vita».

Tu invece ce l’hai davanti. Cosa vorresti fare?
«L’ho in mente da tempo: il carabiniere o il farmacista».

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