Rugby, il ct O'Shea ospite al Messaggero: «La mia Italia batterà la Francia»

Conor O'Shea
di Paolo Ricci Bitti
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Mercoledì 13 Marzo 2019, 03:01 - Ultimo aggiornamento: 1 Aprile, 15:24

Primo: battere la Francia; secondo: battere la Francia...
«E anche terzo: battere la Francia sabato all’Olimpico - risponde Conor O’Shea, 48 anni, dal giugno 2016 ct dell’Italia con la quale ha perso tutte le 14 partite disputate nel Sei Nazioni - Tra staff tecnico e giocatori non abbiamo altro in testa da quando è finito il durissimo match di Twickenham».

Epperò l’Italia non vince nel Torneo dal 2015: siamo a 21 ko di fila, il record della desolazione.
«Una frustrazione immensa - continua l’ex estremo dell’Irlanda, 35 caps, in visita alla redazione del Messaggero - ma sono sicuro di poter battere la Francia se riusciremo a giocare con continuità come abbiamo fatto per molti tratti in questo torneo, compreso il match contro l’inavvicinabile Inghilterra. Con la Scozia abbiamo avuto un buon secondo tempo, mentre con Galles e Irlanda ce la siamo tirata per gran parte del match. Con gli inglesi il divario, invece, è ancora molto largo. Ah, insieme ai centri Campagnaro e Castello anche la seconda linea Budd ha riportato a Londra una frattura, in questo caso a una costola: dovrebbero invece recuperare Sergio (Parisse, ndr) e Morisi».
 



Dopo quasi tre stagioni da ct azzurro, la nazionale è dove sperava?
«Naturalmente no, sono deluso: amo vincere, come tutti i ragazzi del gruppo. Lo Sport è fatto di risultati. E mi prendo tutte le colpe di questa situazione. Ai giocatori dico di pensare a migliorare la prestazione: li valuto per quello, non per il punteggio finale. Al tempo stesso non ho perso nemmeno un briciolo della speranza di far crescere gli azzurri e sono convinto che anno dopo anno la nazionale sia cresciuta tanto. E dietro di lei si irrobustisce la filiera club, accademie, franchigie allestita per la prima volta: il percorso è ancora lungo e duro, gli avversari mica ti aspettano, ma, sia pure con assai meno risorse economiche dei rivali, si vedono miglioramenti, emergono giovani interessanti. Lo staff di Stephen Aboud (anch’egli irlandese) sta lavorando bene per allargare la base, abbiamo avuto buoni risultati con l’Under 20 e l’Under 18. E con le franchigie Benetton Treviso, che sta facendo molto bene in Pro 14 (coppa europea), e Zebre Parma i rapporti sono ottimi. Non potremo mai competere con i numeri di Inghilterra e Irlanda, con la loro organizzazione, ma con Scozia e Argentina, sì. Dobbiamo prestare attenzione a ogni giovane talento, dobbiamo rendere ancora più strutturati i percorsi per arrivare all’alto livello perché non ci possiamo permettere di perderne nemmeno uno. Aveste visto che cosa significhi dover rinunciare, ad esempio, a Minozzi e Violi. E avete visto anche la traiettoria in netto calo della Scozia: la squadra che ci ha battuto ha perso un giocatore dopo l’altro e non è più riuscita a vincere» .

In quali aspetti è cresciuta una nazionale che perde così tanto?
«La tenuta fisica per 80 minuti, il mio primo obbiettivo. E poi anche la qualità del gioco: con Allan abbiamo fatto meta all’Inghilterra in 20a fase. Poi nello stesso match concediamo almeno due mete per errori banali, solo nostri. Stiamo lavorando per eliminare questi “regali”, letali nel Sei Nazioni, quest’anno di livello stellare, con 3 delle prime 4 squadre al mondo tutte ancora in corsa per la vittoria finale».





Ecco, un Torneo troppo in alto per noi?
«Siamo di sicuro fra le prime sei squadre in Europa. Molti dicono ancora Georgia, facendo finta di scordare che in novembre l’abbiamo battuta. E vogliamo anche migliorare rispetto alle 12 mete segnate l’anno scorso: ora siamo a 9».

World Rugby, la Fifa ovale, dice di voler allargare la base del rugby, giardino di poche e immutate potenze dal 1800, con la Lega delle 12 Nazioni (Sei Nazioni+Quattro Nazioni (emisfero sud)+Giappone+Stati Uniti) e il meccanismo della retrocessione.
«Il concetto è giustissimo, doveroso. E la meritocrazia è un grande valore. Poi attendiamo di capire meglio il tipo di competizione e se davvero aiuterà le nazioni minori. A ogni modo non ho difficoltà ad affrontare il tema “retrocessione”: basta che sia tutto chiaro. Fateci sapere le regole e noi ci adatteremo. Se ci sarà da lottare per non retrocedere lo faremo, ma forse sarà costretta a farlo anche qualche altra nazione».

Tipo la Francia, che sabato alle 13.30, davanti ai 50mila fedeli dell’Olimpico, arriverà assai malconcia soprattutto nello spirito (vittoria solo con la Scozia, debacle con Inghilterra e Irlanda)?
«Resta una squadra con individualità enormi».

Il rugby è “il” gioco di squadra.
«E’ per questo che ho fiducia in un gruppo che riparte con entusiasmo formidabile dopo ogni sconfitta: guardate veterani “centurioni” (oltre 100 presenze) come Parisse, Leonardo Ghiraldini e Alessandro Zanni, probabilmente alla loro ultima partita a Roma. Potrebbero aver mollato da anni la maglia azzurra, pensare solo al club, ma continuano a lottare come leoni».
 
 


Lottano per un paese che non ha la tradizione e la cultura ovale degli avversari, per un paese monopolizzato dal calcio e con poco Sport nelle scuole.
«Certo la tradizione è importante, ma non serve lamentarsi se manca, è una questione storica. E sono forti in Italia anche le carenze scolastiche in fatto di sport rispetto, ad esempio, alle nazioni anglosassoni. Ma, detto ciò, pensiamo a quello che abbiamo, sfruttiamolo bene: costruiamo un modello di gioco adatto agli italiani. Io non pretendo che l’Italia giochi all’irlandese, anzi, lavoro anche con i tecnici italiani per contribuire a creare un modello per l’Italia adatto all’oggi e utile per il domani. Ragiono sempre su questi due binari».



Un suo amico di famiglia, Eamonn Walsh, attuale vescovo di Dublino, ha giocato a Roma negli anni Settanta e si dice sorpreso dei forti progressi del movimento italiano rispetto a quello “primordiale” che aveva conosciuto poco più di una generazione fa, quando non si poteva nemmeno sognare di essere invitati nel Sei Nazioni.
«E’ vero, monsignor Eamonn è un amico, ha celebrato le nozze dei miei fratelli. E’ stato un’ottima seconda linea e conosce bene il gioco. Quella sua considerazione me l’ha ripetuta proprio qui a Roma a una cena di famiglia alla vigilia di Italia-Irlanda del 24 febbraio scorso. Ma io, ringraziandolo, gli rispondo che devo pensare alla situazione attuale e a quella futura: il passato è passato».

Non passano invece le differenze nella vita di tutti i giorni fra Irlanda e Italia: lei ha anche vissuto in Veneto con sua moglie Alexandra e le figlie Olivia e Isabella.
«“Abitare in talia è meraviglioso nonostante la burocrazia: un semplice cambio di residenza si può trasformare in un incubo. All’opposto vi sono invece alcune similitudini molto spiccate: ad esempio il grande amore per la famiglia. E non è retorica dire che nel gruppo degli azzurri c’è un clima da famiglia, con i più giovani assistiti dagli “anziani”».

Lei ha lauree in Economia e in Legge a Dublino, oltre a un master in Scienza dello Sport negli Stati Uniti. Ed è stato anche direttore dell’Istituto inglese dello Sport. Ma non dove essere facile trovare le parole per motivare i giocatori dopo tante sconfitte.
“Ma i giocatori azzurri sono sempre motivatissimi: io amo profondamente questa loro determinazione, questo loro orgoglio”.

E non la stupisce entrare nell’Olimpico e scoprire che, nonostante i ko in serie, ci sono 50mila fedeli? Come spiega questo sostegno a una nazionale che alza così poco le braccia al cielo: con lei è accaduto 6 volte in 32 match?
“E’ entusiasmante vedere tutta quella gente che evidentemente capisce il valore dei nostri avversari e il tenore del nostro impegno. Considero il pubblico un protagonista della nostra crescita: insieme dobbiamo percorrere un lungo cammino”.

Sabato all’Olimpico sarà la 100a partita dell’Italia nel Sei Nazioni (12 vittorie e un pareggio dal 2000) e la 500a nella storia del rugby azzurro.
«Una motivazione in più, magnifica. E poi Parisse e “Ghira”, star del campionato francese, daranno ancora di più contro l’avversaria tradizionale dell’Italia (71 confronti dal 1935, ndr)».

Dopo il Sei Nazioni 2020 scadrà il suo contratto: si vede ancora in Italia, magari quale effettivo direttore di tutto il movimento?
«Adesso penso alla Francia, poi al Mondiale in settembre in Giappone, dove sono convinto che faremo bene, e poi al prossimo Sei Nazioni.
Tutto è possibile, anche la mia famiglia sarà coinvolta nella decisione, ma soprattutto voglio assolutamente mantenere fede alla promessa di lasciare il rugby italiano migliore di come l’ho trovato».

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