Oscar, il regista del film vincitore “Green Book”: «Il mio messaggio è molto semplice: siamo tutti uguali»

Oscar, il regista del film vincitore “Green Book”: «Il mio messaggio è molto semplice: siamo tutti uguali»
di Gloria Satta
3 Minuti di Lettura
Martedì 26 Febbraio 2019, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 27 Febbraio, 21:53
LOS ANGELES
Il trionfo di Green Book, vincitore di tre statuette, ribalta la carriera di Peter Farrelly, 62 anni, regista (a volte in coppia con il fratello Bob) di commedie demenziali di culto come Tutti pazzy per Mary, Amore a prima svista, Scemo & più scemo. Farrelly, protagonista di uno scandaletto pre-Oscar (ha dovuto scusarsi per aver mostrato il pene sul set, per gioco, vent’anni fa), racconta la lunga avventura che l’ha portato fino agli Academy con questo “dramedy” incentrato sull’amicizia che negli anni Sessanta legò il pianista di colore Don Shirley e il buttafuori Tony “Lip” Vallelonga interpretati rispettivamente da Mahershala Ali (premiato con l’Oscar, come lo sceneggiatore Nick Vallelonga, figlio di Tony) e Viggo Mortensen. Green Book, che nel mondo ha incassato 144 milioni di dollari, è un successo anche in Italia: distribuito da Eagle e Leone Film Group, ha superato i 5 milioni e 800mila euro.
 
Si aspettava di vincere l’Oscar?
«Oddio, avevamo la nomination e sapevamo che c’era una possibilità ma onestamente non ce lo aspettavamo. Mi viene in mente un paragone con il calcio».

Quale?
«Stai guardando la partita della tua squadra del cuore, esci dalla stanza e quelli vincono. Ecco, è come se il film avesse preso l’Oscar mentre guardavo da un’altra parte».

Il personaggio di Mortensen è un “Maga guy”, il supporter nazionalista di Trump che ha per slogan “Make America Great Again”, rendiamo l’America nuovamente grande?
«Non ci ho pensato. Il film è ambientato in un’era diversa e non so se oggi Tony seguirebbe Trump. È uno che all’inzio fallisce e poi impara tanto dall’uomo, così diverso da lui, con cui gira in macchina. I due realizzano che hanno in comune molte più cose di quelle che pensano».

Qual è il messaggio che il film dà all’America di oggi, caratterizzata da uno scontro politico acceso?
«È un messaggio di speranza, anche quando sembra che le speranze siamo poche. È un invito a superare le divisioni. Dobbiamo comunicare per ritrovarci più vicini. So che può sembrare banale e un po’ ingenuo, ma è la verità. L’unico modo per superare i problemi è parlarsi». 

Green Book può dunque contribuire a pacificare gli animi?
«Sì, perché parla d’amore. Ed invita ad amarsi gli uni gli altri nonostante le differenze. La storia di Tony e Don ci aiuta a scoprire chi siamo. E siamo tutti uguali».

Chi, oltre agli attori e i produttori, vorrebbe ringraziare?
«Steven Spielberg che ha creduto nel progetto e l’ha appoggiato con vigore».

Ma lei, regista di commedie demenziali, com’è finito a dirigere questa storia?
«Ho saputo che Brian Hayes Currie stava lavorando al soggetto del film dopo aver ascoltato i racconti del suo amico Nick Vallelonga, figlio di Tony. Mi dissi che era un’idea fantastica. E chiesi di salire a bordo». 

Green Book rappresenta una svolta nella sua carriera? 
«È un nuovo inizio, ma il film mi riporta a ciò che ho sempre voluto fare. In passato, quando mi chiedevano se volessi realizzare un film drammatico, rispondevo: lo farò quando arriverà il momento. È come chiedere a qualcuno: quando ti innamorerai? Quando arriva... arriva». 
 
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