Marco Gervasoni

Tornano le coalizioni/ Gli elettori uniscono ciò che i leader dividono

di Marco Gervasoni
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Martedì 26 Febbraio 2019, 00:00
Adesso capite come mai molti Paesi non utilizzano più gli exit poll? Perché, complice lo scarto temporale tra la chiusura delle urne e l’inizio del conteggio, essi consentono previsioni che poi risultano, poche ore dopo, puri esercizi di fantasia. Niente lotta all’ultimo voto tra Solinas, candidato del centrodestra, e Zedda, del centrosinistra, ma, come previsto da sondaggi condotti con maggior rigore, vittoria ampia del primo. 
Oltre a non utilizzare più exit poll, l’altro suggerimento è quello di considerare le elezioni regionali solo come una tendenza di quanto potrebbe accadere in quelle nazionali, e segnatamente europee. Le regionali spingono infatti alla proliferazione di liste, che finiscono per penalizzare i grandi partiti: ma chi ha votato le liste alleate molto probabilmente alla prossima elezione nazionale tornerà a scegliere i soggetti più grandi. 

Inoltre il voto regionale, in quanto locale, è molto più influenzato, rispetto a quelle europeo, dalla richiesta di attendersi qualcosa in cambio: tutto legittimo, per carità, questa è la democrazia, non solo da noi; e non dobbiamo fingere di non saperlo. Tali premesse potrebbero giustificare o almeno attenuare, la disfatta dei 5 Stelle, privi per loro volontà di liste di supporto e di un ceto politico di amministratori locali.

Ma tutto questo poteva essere vero fino a ieri mattina, quando gli exit poll prevedevano un 20% che di per sé avrebbe rappresentato comunque un tonfo. Arrivati neppure alla metà di voti reali rispetto a quella previsione, è evidente che si tratta di una debacle che interroga la natura profonda del movimento. 
I 5 Stelle hanno sempre raccolto i loro consensi come un “partito” pigliatutto, da destra e da sinistra. Ma i partiti pigliatutto funzionano bene solo in due casi: quando sono all’opposizione oppure quando al governo dimostrano di essere affidabili. Usciti dalla prima condizione, i 5 Stelle non sembrano aver convinto i loro stessi elettori di essere entrati nella seconda. Come abbiamo già scritto in occasione dell’Abruzzo, devono liberarsi della sindrome di Peter Pan e sapere cosa vorranno essere da grandi. 
Se i 5 Stelle sono i grandi sconfitti, il vincitore è il “centrodestra”: tra virgolette perché non ha più senso, ormai, chiamarlo così. La Lega, che ha di nuovo superato Forza Italia ed è secondo partito, è collocata intorno al 12% perché si è presentato anche il Partito sardo d’azione: i cui voti alle Europee ritorneranno presumibilmente verso Salvini. Più che parlare di centrodestra, bisognerà d’ora in poi quindi utilizzare un altro termine: Lega-centro ci sembra più adeguato. 

Un centro ridotto che, però, sembra ancora essenziale per la vittoria, almeno nelle elezioni locali. Quello che si registra in questo campo è insomma lo stesso fenomeno dei tempi del berlusconismo trionfante: il “popolo” del fu centrodestra, e ora Lega-centro, è compatto ed omogeneo, dove le differenze tra salviniani, meloniani e berlusconiani sfumano fino quasi ad annichilirsi: si segue il capo (o chi il capo ha candidato). Che è la grande forza di quel campo, ma può essere anche un limite quando il capo si indebolisce. Il messaggio che ne deriva è semplice: gli elettori uniscono e semplificano con il voto territoriale ciò che invece i leader separano e dividono, anche sul piano delle alleanze, a livello nazionale. Ogni riferimento alla attuale maggioranza giallo-verde è puramente voluto.
Quanto al campo che invece di capi non ne vuole avere, se non per sostituirli con una frequenza degna di miglior causa, il centrosinistra, anch’esso avrebbe bisogno di un restyling linguistico. Non solo in Sardegna, dove Zedda è di area Leu, ma anche a livello nazionale, con la probabile segreteria Zingaretti, ormai bisognerà parlare di “sinistra-centro”. Lo scenario è l’opposto della vocazione maggioritaria di Veltroni e di Renzi: oggi la vocazione è il ritorno alla formula che un po’ ricorda l’Unione del 2006. 

Alle Regionali tutto ciò sembra funzionare, soprattutto se si trova un buon candidato, che con la sua lista attira consensi, perché la formula della “dispersione” non maggioritaria consente agli elettori di sinistra, sempre in lotta gli uni con gli altri, di identificarsi in una grande alleanza, in cui ognuno, dal neo comunista al cattolico sociale, dal riformista Pd al “liberal”, possa sentirsi rappresentato. Più complicato però che questa formula possa reggere a livello nazionale. 
La lezione, sia pure limitata al quadro locale, è insomma che i simili si attraggono: partiti separati e all’opposizione a Roma, nei Comuni e nelle Regioni vanno d’amore e d’accordo all’insegna del richiamo della foresta. Questo dato, quasi antropologico, assieme all’afasia politica del progetto 5 Stelle, avrà certamente importanti conseguenze: anche se, presumibilmente, solo dopo le elezioni europee.
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