Marco Gervasoni

La sindrome di Peter Pan del partito della protesta

di Marco Gervasoni
3 Minuti di Lettura
Mercoledì 13 Febbraio 2019, 00:12
Una lezione i 5Stelle possono trarre dal risultato delle elezioni regionali abruzzesi. Una lezione che coincide anche con una delle ferree leggi della politica (ne ha poche, ma le ha). Cioè che quando si partecipa al governo, per di più nel ruolo di maggior partito, non si possono più condurre campagne elettorali come se si fosse ancora all’opposizione. E invece la direzione di quel movimento, che non si capisce ancora se stia in capo a Di Maio o alla Casaleggio, ha deciso nientemeno di far ritornare Di Battista per menare una battaglia non molto diversa, per i toni e per i contenuti, da quella viste già molte altre volte in passato, sempre senza successo. A poco è servito il volto rassicurante della candidata, e il suo far parte del piccolo establishment della regione, se poi al suo fianco si dimenava sempre qualcuno urlante. E come in passato gli elettori, non solo abruzzesi, si sono poco fidati delle capacità amministrative dei grillini, così non se la sono sentita domenica. E hanno preferito, parliamo di coloro che li avevano scelti il 4 marzo, guardare verso la più affidabile Lega oppure astenersi. Questo è un problema molto più serio della mancanza di liste appaiate, che è solo una questione organizzativa e non riguarda l’identità politica dei 5Stelle.

 A questo punto il movimento deve decidere che cosa vuole fare da grande e soprattutto chi vuole essere. Deve soprattutto chiarirsi se vuole passare nella fase della maturità oppure se vivere in una sorta di sindrome di Peter Pan permanente. Nessuno pensa che i 5Stelle possano diventare un partito come gli altri, e del resto non avrebbe senso chiederlo loro: il lupo non può diventare agnello. Infatti il loro merito, fin dalle elezioni del 2013, è stato quello di aver incanalato nelle istituzioni una rabbia che in altri Paesi aveva provocato scontri di piazza violenti. Una rabbia le cui cause sono ancor più identitarie che economiche, e che sono ben lungi dall’essere scemate.
La forza e la persistenza dei gilet jaunes sta lì ad indicarlo a tutti: anche se quel movimento ha caratteristiche specifiche all’Esagono e scarsamente esportabili. Difficile immaginare tuttavia cosa sarebbe accaduto se nel giugno scorso, invece del governo giallo-verde, fosse sorto un accrocchio di palazzo: avremmo avuto non gilet gialli ma forconi, che sono più tipici della nostra storia nazionale. I 5Stelle e la Lega assieme hanno dato voce a questa rabbia, incanalandola nell’attività di governo. Ma se la Lega ha capito che, dopo la rivoluzione del 4 marzo, negli italiani pare essere nata voglia di Termidoro, cioè di un inquadramento costruttivo, i 5Stelle invece sembrano vivere ancora in un’atmosfera da esaltazione giacobina. Mentre dovrebbero ricordarsi che gli italiani sono in larga parte a vocazione anarcoide e sovversiva (il diciannovismo, un secolo fa!) ma con finalità conservatrici, in senso buono. Per questo è cosi difficile governarli, come aveva capito persino Mussolini («governare gli italiani non è difficile, è inutile»). Ora Di Maio e Di Battista (se non intraprenderà altri viaggi) sono di fronte a un bivio. O cercare di adottare un profilo di sovranismo di governo, che possa rassicurare gli italiani, e i ceti produttivi soprattutto, sulla loro affidabilità. E allora può essere che l’esperimento giallo-verde resista oltre le Europee, e si trasformi in qualcosa di inedito: una sorta di laboratorio, per quanto ad alto rischio, anche per gli altri Paesi europei. Altrimenti, se prevarrà come finora vediamo la voglia di Terrore (nel senso giacobino), il richiamo della foresta, la ricerca di una verginità che, come tutte le verginità, una volta perduta non è recuperabile, allora salterà tutto. Ma il destino dei grillini sarà in tal caso quello di accompagnare e di amplificare le più disperate proteste, come oggi quella dei pastori sardi: una strada senza costrutto e senza sbocchi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA