Mario Ajello
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Sanremo, colpo di coda del politicamente corretto

di Mario Ajello
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Lunedì 11 Febbraio 2019, 00:30
É il colpo di coda, o il risveglio, del politicamente corretto.
Che si sentiva messo all’angolo, schiacciato dalla supremazia del popolo sovrano e perfino sovranista, impossibilitato a mostrare la sua vecchia supremazia perché quel tempo non c’è più. Ma a Sanremo, il politicamente corretto ha cercato di risorgere dalla propria crisi - dando la vittoria a Mahmood anche se il voto popolare è stato tutto a favore di Ultimo - e questa vittoria delle élites, cioè la giuria di esperti e giornalisti sostenuta dal progressismo nazionale anti-Salvini, è potuta accadere grazie al fatto che la canzone del giovane cantante di padre egiziano ha qualcosa nei suoni e nei toni di più innovativo rispetto all’altra e ne giustifica in qualche modo il successo. Questo piano perfetto per la riscossa si è insomma poggiato su un fatto musicale. 

E così l’oligarchia dei sapienti - per usare la terminologia dei loro nemici - ha imposto il proprio volere sulla larga maggioranza dei votanti. Correggendone gli umori. Paternalismo? La testa del Paese canoro ha primeggiato sulla pancia e l’ha potuto fare grazie soprattutto al meccanismo duplice del voto sanremese. Del resto, anche sulla Brexit o sul referendum costituzionale, se avesse contato il parere delle élites più che quello del resto dei cittadini, avrebbero vinto il remain e la riforma del governo Renzi. C’è chi dice che questa vittoria da festival dell’Italia aperturista e multiculti sia la prima rivincita della sinistra dopo il 4 marzo. E un po’ è così. Tutto il festival è stato in bilico, ha regnato una bonaccia sul tema immigrati a dispetto delle aspettative che volevano burrasca. Si cercava lo spiraglio per attizzare polemiche politiche, ma niente.
Baglioni mansueto e Bisio e gli altri pure, conformi al «qui non si parla di politica» voluto dal leader leghista. Ma alla fine, al momento della decisione, si è trovato lo spiraglio giusto, e via con lo sberleffo in zona Cesarini contro la pax che si era stabilita. E ora forse ha ragione Baglioni che propone di semplificare il sistema: in favore del voto democratico senza il voto degli ottimati. Magari sarà più rozzo questo voto ma più rappresentativo, e si eviteranno polemiche come quelle in corso. In cui si fronteggiano il concetto della democrazia dei numeri con il concetto della tutela dall’alto delle scelte, considerate solitamente sbagliate, della massa. 

Questa sfida élites-popolo è stata vinta dalle prime con un divario abissale, ma la reazione del fronte sconfitto, a cominciare da Ultimo, non è sportiva affatto. Pure il popolo, quando perde, deve rispettare le regole. Anche se ritenute sbagliate. Invece dilaga la rabbia sui social e anche in certi ambienti politici, e ormai è nello spirito (sbagliato) dei tempi giallo-verdi questa escandescenza continua su tutto, anche da parte di chi dovrebbe rappresentare le istituzioni. Se si fossero rispettate - senza scorciatoie e altri fini - la volontà popolare e le cifre che la certificano, non si sarebbe dato adito alle contestazioni. 

Da una parte, i sapienti hanno voluto dare una lezione politica e culturale al popolo secondo il solito spartito dell’ora ti spiego io; dall’altra parte, si è scatenata la protesta solo perché il risultato non ha coinciso con le larghe aspettative riversate su Ultimo. Chiamale, se vuoi, arroganza dell’oligarchia e rivolta di popolo, che si sente tradito pur avendo dalla propria parte i numeri. E questo è uno spaccato d’Italia. Quella stessa narrata in un romanzo gustoso - “Il censimento dei radical chic” di Giacomo Papi (Feltrinelli) - in cui chi cita Spinoza in tivvù finisce male e il politicamente corretto deve nascondersi in clandestinità. Stavolta è andata all’opposto, ma la battaglia continua. 
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