Alessandro Campi
​Alessandro Campi

La politica virtuale/ I nuovi leader non s’illudano: hanno bisogno di partiti veri

di ​Alessandro Campi
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Mercoledì 30 Gennaio 2019, 00:23
Può una verità mille volte ripetuta e ampiamente condivisa rivelarsi, se non una falsità vera e propria, una verità parziale o di comodo? Prendiamo ad esempio il ritornello secondo il quale nelle democrazie contemporanee, dominate dalla comunicazione istantanea e dal ruolo decisivo in esse rivestito dai politici-demagoghi che seducono le folle con le loro promesse mirabolanti, i partiti politici siano destinati a sopravvivere solo in una forma organizzativamente leggera e programmaticamente fluida. 

Finite le ideologie, che giustificavano la militanza nei suoi ranghi con una dedizione che spesso sconfinava nel fideismo, il partito di massa da tempo è considerato un anacronismo novecentesco. Senza contare che per tenere in vita i grandi apparati burocratici necessari a garantirne la capillare presenza sul territorio, occorrevano talmente tante risorse finanziarie da rendere quasi necessario il ricorso da parte sua alla corruzione o, nella migliore delle ipotesi, all’accaparramento delle risorse pubbliche. Da qui il discredito – al tempo stesso politico e morale – che ha finito per travolgerlo. 

Crollati gli iscritti, esauritisi (giacché divenuti insostenibili agli occhi dei cittadini) i finanziamenti pubblici, i partiti si sono geneticamente modificati per adattamento funzionale al contesto della post-modernità.

Ciò si è verificato una volta chiuse le sezioni territoriali e le strutture che gli facevano da corona (dai circoli culturali a quelli sportivo-ricreativi), licenziati i funzionari, fallita per mancanza di lettori la stampa ufficiale, volatilizzatisi (per fortuna…) gli intellettuali organici.

Nati storicamente per dare voce e rappresentanza a interessi particolari e a ben precisi blocchi sociali, sono divenuti macchine elettorali nella disponibilità di questo o quel leader e del suo ristretto nucleo di seguaci-collaboratori. I loro simboli, evocativi di antiche passioni e di profonde divisioni sociali, si sono trasformati in sigle o marchi commerciali, da cambiare secondo la convenienza ad ogni consultazione. Se prima, fedeli alla loro etimologia, essi parlavano ad una parte soltanto della società, sempre più hanno cominciato a rivolgersi agli elettori in modo trasversale e indifferenziato, sino alla pretesa di rappresentare l’intero popolo o tutta la nazione. 

Soprattutto i nuovi partiti hanno sempre più rinunciato – un po’ per scelta un po’ per necessità – ad avere una struttura gerarchica, capace di irradiarsi dal centro verso la periferia, e un articolato apparato organizzativo (divenuto sinonimo di degenerazione oligarchica). Se il tratto distintivo della nostra epoca è la “liquidità” (se non la virtualità vera e propria) come potevano i partiti sfuggire ad un simile destino? Quanto alla necessità di rendersi nuovamente credibili, dopo la stagione degli scandali e dinnanzi alla perdita evidente delle loro antiche funzioni (in primis la selezione dal basso di un ceto politico competente e politicamente motivato), lo si è fatto seguendo all’ingrosso due strade: da un lato (a destra) affidandosi interamente alla forza comunicativa del capo carismatico e alla sua capacità quasi magica ad interpretare gli umori profondi e le necessità reali dei cittadini; dall’altro (a sinistra) coinvolgendo questi ultimi, non solo più gli iscritti e i militanti, nella vita interna del partito, a partire dalla scelta del suo vertice politico e dei suoi candidati a tutti i livelli.

Ma queste due forme (speculari) di leaderismo non sembrano aver fatto granché bene alla democrazia italiana, tanto meno hanno rivitalizzato i partiti. Come del resto non sembra di molto migliorata la nostra vita civile da quando i partiti di massa hanno smesso di dominare la scena politica (sono forse scomparse la corruzione e il clientelismo?). La domanda che viene spontanea è dunque la seguente: si può avere una democrazia forte con partiti deboli? 

Non si tratta ovviamente di nostalgia per un passato che non può ritornare. Nemmeno si possono chiudere gli occhi sulla rivoluzione tecnologica che sta cambiando alla radice i codici della politica. Ma forse si è stati un po’ frettolosi nel teorizzare l’avvento definitivo del partito light, del partito ridotto a comitato elettorale o, peggio, di una futura “democrazia senza partiti”. In un libro appena uscito (Un partito sbagliato, Democrazia e organizzazione nel Partito democratico) il politologo Antonio Floridia se la prende giustamente con quella (cattiva) filosofia della storia secondo la quale il passaggio dal partito organizzato di massa al partito personale, per finire col partito virtuale ridotto ormai a semplice piattaforma informatica o brand pubblicitario, rappresenta un processo oggettivo e irreversibile, al quale la politica odierna non può che rassegnarsi. Dinnanzi ad un simile giudizio storico dove finisce la descrizione neutrale di un fenomeno e dove comincia la prescrizione, dettata da una precisa scelta valoriale, di un modello o di una forma organizzativa? 

Che dei partiti (organizzati e radicati) non si possa fare a meno lo dimostra paradossalmente proprio la realtà italiana. Pensiamo al tentativo di Maurizio Landini, appena nominato segretario della Cgil, di fare del sindacato storico della sinistra quel partito d’opposizione radicale che il Pd, senza una leadership politica univoca e con una struttura organizzativa debole soprattutto sul territorio, non riesce più ad essere. Un proposito probabilmente velleitario, ma che nasce dalla consapevolezza che ci sia un vuoto di rappresentanza sociale da colmare mobilitando le piazze (lavoratori, giovani, immigrati, pensionati) contro le istituzioni. 

Quanto al Pd, alle prese con un delicato appuntamento congressuale, forse bisognerebbe cominciare a chiedersi quanto certe scelte strategico-organizzative nel segno di una maggiore partecipazione popolare (a partire dall’elezione del segretario attraverso lo strumento delle primarie) abbiano in realtà contribuito a indebolirlo. Si dice spesso che la crisi del Pd sia un problema di idee e di uomini. E se fosse invece un problema di regole interne e di malfunzionamento della sua macchina troppo orientata in una chiave elettoralistico-plebiscitaria?

D’altro canto se si analizza da vicino la leadership in questo momento particolarmente forte di Salvini, viene facile pensare che essa dipenda soprattutto dall’avere alle spalle un partito con una forte struttura organizzativa e una articolata presenza sul territorio. Ma anche il movimentismo anarchicheggiante M5S, dimostratosi sin qui capace di resistere a qualunque polemica o attacco, nasconde in realtà una strutturazione di quel partito fortemente gerarchica e piramidale che compensa ampiamente la propaganda all’insegna del motto “uno vale uno”. I partiti populisti sono forti non perché cavalcano con spregiudicatezza l’onda del risentimento e della rabbia, ma perché si comportano come i partiti di una volta nel mentre alimentano la protesta anti-partitica. Un paradosso divertente! 
Insomma, non solo c’è ancora bisogno dei partiti perché ci sia una democrazia. Ma c’è bisogno anche di partiti in grado di fare, proprio perché minimamente strutturati, almeno quattro cose vitali per ogni democrazia: creare e formare gruppi politici dirigenti dal basso sulla base di un adeguato cursus honorum; favorire la partecipazione democratica alla loro vita interna (garantendo così il pluralismo e il dissenso); selezionare, sulla base di una competizione aperta, leadership durature e autorevoli invece di quelle effimere cui ci stiamo abituando o di quelle che, nel caso dei partiti personali, rischiano di sfociare in autentiche satrapie; incidere sui processi decisionali pubblici a partire dagli interessi che si è scelto di rappresentare. Tutto il resto è solo cattiva profezia sul futuro della politica spacciata per analisi scientifica.
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