Amar Ramasar al Teatro dell'Opera: «Con questa Carmen esco dal buio»

Amar Ramasar con Rebecca Bianchi nella Carmen al Teatro dell'Opera dal 2 al 10 febbraio
di Simona Antonucci
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Martedì 29 Gennaio 2019, 19:51 - Ultimo aggiornamento: 2 Febbraio, 21:33

«Questa Carmen, per me, è luce. Dopo mesi di buio. Il primo lavoro da quando mi sono visto chiudere in faccia le porte del New York City Ballet. Un’uscita burrascosa e dolorosa. Ma ho speranze. Non può finire così. La cosa incredibile, una ventata di fiducia, è che, nonostante sia stato accusato di comportamenti inopportuni nei confronti di una donna, siano poi state proprio le donne a offrirmi un’opportunità e a tirarmi fuori dal baratro».
 


Amar Ramasar, 37 anni, star della danza statunitense, è nel pieno delle prove dello spettacolo che andrà in scena al Teatro dell’Opera di Roma dal 2 febbraio (Carmen, coreografie di Jiří Bubeníček, repliche fino al 10) e nel pieno di una vicenda giudiziaria, legata a un presunto “scambio inappropriato di messaggi tra colleghi con foto sessualmente esplicite”.


Un caso che, a pochi mesi di distanza, ha riportato nuvole e tempesta, sospetti e disagio, sulla prestigiosa compagnia americana finita nella bufera #MeToo a gennaio scorso, quando Peter Martins, il 71enne numero uno del New York City Ballet, che negli ultimi trent’anni ha forgiato la prestigiosa compagnia, si dimise in seguito ad accuse di molestie sessuali e di abusi fisici e verbali.

Capitoli oscuri in un mondo incantato che sotto i riflettori racconta storie fiabesche e sulle pagine dei giornali rivela il suo dark side. «A settembre, pochi mesi dopo l’uscita di Martins, è scoppiato anche il nostro caso», racconta Ramasar, «siamo stati convocati in tre, in seguito alla denuncia ai vertici del teatro di una collega. Gli avvocati sono al lavoro, a marzo l’udienza, e non posso entrare troppo nei dettagli. Ma è una follia. Sono stato sospeso e poi richiamato e licenziato prima ancora che venissero fatte delle indagini e per una storia che sarebbe comunque avvenuta fuori dall’orario di lavoro».

A difendere il posto di primo ballerino nella compagnia è sceso in campo il sindacato. «Non solo. Al mio fianco si sono schierate la mia fidanzata, la mia ex moglie. E tante ballerine con cui divido emozioni, fatica, insomma la vita, da sempre. Il Nyb è la mia casa. Anzi lo era. Una volta fuori, mi è sembrato di perdere tutto, non solo il lavoro, ma l’identità. Assurdo che sia successo proprio a me. Sono sempre stato un sostenitore di #MeToo. Non per moda o convenienza, ma perché mia madre ne ha subìte tante di violenze nella vita. Io sono stato il suo sostegno. E invece...».

Un tonfo spettacolare. Paura, rabbia, sconcerto. Fino a che il telefono ricomincia a squillare: «Sei possibilità di lavoro. Tutte da coreografe o direttrici donne. E sui passi di questa coreografia Bubeníček ho ripreso a volare». 

Cresciuto nel Bronx, Amar, appartiene a più mondi: madre portoricana, padre di Trinidad, nonno indiano. Un sangue “globalizzato” che lo ha portato a essere uno dei pochi ballerini americani-asiatici e l’unico danzatore di colore del New York City Ballet. «Nella mia città c’è gente da ogni parte del mondo, di tutti questi “primati” non me ne sono mai accorto. Una delle mie più care amiche è Misty Copeland, siamo cresciuti insieme. Discriminazioni, nell’assegnazione dei ruoli, mai».

Difficoltà tante. Decide di iscriversi in una scuola di danza, già grandino: «A tredici anni vedo un video del balletto
Agon di Balanchine e mi innamoro». Entra alla scuola dell’American Ballet e da lì comincia l’avventura che lo porta a diventare primo ballerino e a essere invitato nei teatri di tutto il mondo, compresa Broadway per lo spettacolo Carousel, vincitore di Tony Awards.

«Prima di allora della danza sapevo poco o nulla. Gli unici balli che conoscevo erano la salsa, il merengue, la bachata, quelli dei miei genitori. Tutto lì». Una montagna in salita e a volte decisamente ripida: «È un luogo comune considerare la danza un mestiere da effeminati. E quando per strada, nel mio quartiere succedeva eccome, te lo urlano dietro è per insultarti e non certo per farti un complimento. Io non sono gay, ma questo non c’entra nulla. E non sono certo d’accordo con il collega Sergei Polunin che sui social predica che per sentirsi uomini bisogna essere leoni, lupi. Io non sono aggressivo e non ho mai fatto a pugni. A chi mi importunava rispondevo solo che ne avremmo riparlato in futuro, quando la mia faccia sarebbe comparsa in tv o sui poster dei teatri».

Ora in un teatro, al Costanzi, ci è tornato.
E poi? «Sto valutando varie offerte. A marzo vediamo che cosa succede con il Nyb. Non so che cosa augurarmi. Un viaggio, sì. Vado a visitare la città di mio nonno, vicino Calcutta. L’India è il Paese degli estremi, vado lì a cercare le mie origini e una risposta a tutto quello che mi è successo». 

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