Marco Gervasoni

I limiti di Conte/ L’Italia difenda la linea dura e non diventi subalterna

di Marco Gervasoni
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Venerdì 11 Gennaio 2019, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 20:22
Bisogna ringraziare la piccola ma antica e nobilissima Chiesa Valdese per la sua disponibilità ad accogliere gli immigrati della “Sea Watch”, dopo l’accordo raggiunto nel governo due notti fa. Ma è un compromesso che nulla risolve, tanto più che rischia di finire come con la nave “Aquarius”: degli immigrati teoricamente ospitati dalle strutture vaticane solo un piccola quota vi è infatti rimasta, gli altri sono diventati uccel di bosco. 

Al di là del numero ridotto di persone da accogliere (più che donne e bambini, giovani adulti ben in forma), il caso rischia di creare un precedente. E in politica, come nel diritto, i precedenti pesano, in questo caso negativamente. La conclusione dell’affare “Sea Watch” potrebbe infatti vanificare molti degli sforzi che l’Italia, e in particolare il ministero dell’Interno, si sono fissati, anche da prima che al Viminale giungesse Salvini: fermare l’immigrazione clandestina, l’attività delle Ong e quella dei moderni mercanti di schiavi da un lato, e dall’altro affermare il principio che l’Italia non intende trasformarsi in un immenso campo di raccolta mentre i partner europei stanno a guardare. 
L’accordo raggiunto l’altra notte indebolisce quindi l’Italia e non presenta perciò veri vincitori.

Non lo sono veramente Di Maio e i 5 Stelle che, sull’immigrazione, spesso si posizionano lontani anni luce da un approccio rigoroso. Non è più solo la cosiddetta sinistra pentastellata di Fico: il dato di novità è che Di Maio, fino a qualche giorno fa sempre solidale con Salvini almeno su questo, ora abbia sposato le posizioni del presidente della Camera.

Gioco di equilibrismo interno, necessità di non rompere con quell’elettorato di sinistra che ha votato i 5s e magari strizzata d’occhio anche al Pd. Tutto si spiega, ma resta il fatto che questo cambiamento rischia più che di far cadere il governo, di riaprire i nostri porti. 
Quanto a Salvini, da un certo punto di vista può essere considerato perdente nel round. In realtà avrebbe fatto meglio a rivendicare i risultati della linea del rigore sposata dall’Italia con il suo arrivo al Viminale e già avviata da Minniti.

Se gli sbarchi in Europa sono fortemente diminuiti, è anche perché, come riconosceva giorni fa anche il Wall Street journal, l’approccio intransigente del nostro Paese ha fatto comprendere agli altri Paesi europei l’inaccessibilità dell’Italia e ha lanciato un segnale alle organizzazioni criminali, che in Africa gestiscono i traffici di uomini. Anche la disponibilità dei Paesi europei a distribuirsi gli immigrati non era scontata fino a poco tempo fa, ed è figlia del braccio di ferro di questa estate. Semmai, Salvini dovrebbe denunciare con ancora maggior veemenza che quasi nessuno dei Paesi offertisi di accogliere gli immigrati l’abbia in realtà fatto: a parte l’Irlanda, gli altri sono tutti morosi. E qui si arriva alla carenza di un’autorità di regolazione, che possa farsi sentire e in qualche modo imporre che pacta sunt servanda: insomma, siamo alle solite falle della Ue. 

Sbaglierebbe poi a gridare vittoria anche Conte. Nonostante il suo atteggiamento sacerdotale, è evidente che ha compiuto una forzatura, perché il ministro dell’Interno, per il suo ruolo, andava ascoltato prima di prendere una decisione. Ma soprattutto il presidente del Consiglio ha messo in discussione il contratto politico firmato da 5 Stelle e Lega: che prevedeva un premier quasi tecnico, terzo e mediatore, non schierato con una parte, che pure è la sua, cioè i 5 Stelle. 

I premier decisionisti, purché efficaci, sono auspicabili: ma quelli scelti per essere notai, nel momento in cui strappano, rischiano di far precipitare tutto il governo. I rischi delle ultime mosse di Conte sono chiari: presentare l’immagine di un’Italia subalterna che, dopo le pazzie di qualche mese, ritornerebbe a acquiescente, silenziosa esecutrice di interessi di un’altra Europa che non conosce spesso condivisione ed equanimità nella ripartizione delle scelte. Se non richiamata a regole più eque. 
Forse il premier si è visto solleticare l’ego dalle blandizie del presidente della Commissione Ue o magari della Cancelliera tedesca che, come abbiamo letto sui giornali, si sarebbe prodigata in lodi nei suoi confronti: come aveva fatto con Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. Ma la maggioranza degli elettori del 4 marzo si è chiaramente pronunciata contro questa linea: e non intende vedere a Palazzo Chigi qualcuno che la riprenda, in forma più o meno mascherata.
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