Nord e autonomia/ La secessione dei redditi a spese del Sud

Nord e autonomia/ La secessione dei redditi a spese del Sud
di Gianfranco Viesti
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Sabato 5 Gennaio 2019, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 6 Gennaio, 14:35
Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna ha un Pil complessivo superiore ai 700 miliardi di euro, poco più del 40% del totale italiano. Negli ultimi anni hanno avuto una crescita economica migliore di quella media: delle altre regioni del Nord e dell’intero Centro-Sud; (anche se molto più modesta rispetto alle più avanzate regioni europee); sono aumentate così le disparità fra queste regioni e il resto del paese. 

Sono però le stesse, in particolare le prime due, nelle quali si sono levate più forti le voci a favore di un’autonomia differenziata molto spinta, che consenta di trattenere nei rispettivi territori una quota cospicua del cosiddetto “residuo fiscale”. Più a me; meno a te. Si tratta di una richiesta inaccettabile per la comunità nazionale, sia per motivi politico-economici che strettamente economici.

I residui fiscali regionali sono una stima, calcolata sottraendo dalla la spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale complessivo generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. L’uso di questo concetto ipotizza che l’azione dello Stato redistribuisca esplicitamente risorse fra le regioni. Così non è. Ciò avviene esclusivamente per le politiche “per la coesione” (in attuazione del quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione), dirette principalmente – ma non solo – a favore del Mezzogiorno e per la verità sempre più modeste. La redistribuzione operata dall’azione pubblica è forte; ma non è fra territori, bensì fra individui. La massima parte della conseguente redistribuzione tra aree territoriali è semplicemente il risultato di grandi scelte pubbliche, anch’esse in attuazione della Costituzione, che hanno come beneficiari i cittadini (in base all’età, alla salute, al reddito) prescindendo dall’area di residenza, e che sono finanziate con una tassazione che incide di più sui cittadini a maggior reddito. Il residuo fiscale regionale dipende semplicemente dal fatto che in alcune regioni ci sono cittadini più agiati e in altre meno. Non può essere un criterio da utilizzare per la realizzazione delle politiche pubbliche e per una eventuale loro diversa intensità fra regioni. Lo ha chiaramente affermato anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza 69/2016: perché significherebbe trattare cittadini uguali in modo diverso solo perché abitano in regioni diverse.

Ma ci sono anche motivi strettamente economici per non farlo. Redistribuire la spesa pubblica secondo il residuo fiscale significa aumentarla in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto (e in misura minore in Piemonte e Toscana) e ridurla nel resto del paese. Fortemente nel Mezzogiorno e in Umbria. Per Liguria e Marche l’impatto sarebbe modesto; per il Lazio l’effetto può essere anche molto diverso a seconda di come si effettua il calcolo; e in quel caso bisognerebbe attentamente riflettere sugli effetti di un forte decentramento sul ruolo di Roma. Cioè significa operare per accrescere ulteriormente le disparità interne al paese. Ma questo non solo non è opportuno per l’unità sostanziale dell’Italia; ma è anche molto dubbio che convenga, a lungo andare, anche per le regioni più forti. 

In un paese così diverso come l’Italia, all’azione redistributiva fra i cittadini del bilancio pubblico, che sposta risorse da Nord a Sud, fa riscontro un notevole flusso di beni e servizi prodotti al Centro-Nord, ed in particolare al Nord, e consumati nel Mezzogiorno. Le diverse parti dell’economia italiana sono profondamente interdipendenti. Sulle modalità dello sviluppo del paese ha inciso il ritardo del Sud: l’industria e i servizi delle aree più forti, hanno da sempre potuto godere di un mercato, di oltre venti milioni di abitanti, con una modesta concorrenza locale. Tutte le stime mostrano che la spesa nel Mezzogiorno, in particolare quella per investimenti, ha un effetto di traino; genera acquisti dalle regioni più forti; redistribuisce i suoi benefici su tutto il paese. Mentre non accade il contrario: maggiore spesa nelle regioni più forti tende a concentrare esclusivamente in quei territori il proprio impatto, non diffonde effetti sull’intero paese (motivo per cui sono totalmente ingiustificate le affermazioni secondo cui una autonomia differenziata spinta farebbe bene all’intero paese).

Con la crisi, si è diffuso molto l’egoismo territoriale, non solo in Italia (si pensi alle assai simili vicende della Catalogna); l’orizzonte si è accorciato sul breve periodo. Ma sono prospettive di corto respiro. Una regione non cresce se “si tiene i suoi soldi” – come nel gretto pensiero mercantilista del XVII secolo. Cresce, come è noto agli studiosi di economia quantomeno dalla fine del XIX secolo, se è inserita in una più ampia comunità nazionale, ed europea. Nella quale, grazie a profondi legami di interdipendenza, la crescita di ogni parte favorisce quella delle altre.
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