Oscar Giannino

L’ipotesi che allarma/Partecipate fuori da Confindustria deriva pericolosa

di Oscar Giannino
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Mercoledì 19 Dicembre 2018, 00:25
Indiscrezioni sono rimbalzate ieri intorno all’eventualità di un emendamento alla legge di bilancio con disposizioni su Confindustria. 

È in arrivo al Senato un emendamento contenente disposizioni in merito all’uscita da Confindustria di aziende a controllo pubblico. Secondo alcuni 5Stelle potrebbe trattarsi delle municipalizzate al 100% controllate dal pubblico, secondo altri ne avrebbero parlato Salvini e Di Maio, altre fonti hanno negato di conoscere l’esistenza della proposta. Sia quel che sia, lo scopriremo presto. Ma poiché nel pieno delle polemiche sul decreto dignità era stato Salvini a fare accenno esplicito all’ipotesi di ordinare alle società pubbliche di uscire da Confindustria, tanto vale chiarire subito alcuni punti.

Qualunque sia la forma societaria assunta dalle pubbliche controllate al 100% e non quotate, non è la legge di bilancio lo strumento giuridico per impartire direttive di questo tipo. Neanche nel caso si pensasse di avocarne la competenza giustificandola con il risparmio di qualche pugno di milioni relativo alle quote associative d’iscrizione. Sta a chi esercita il controllo, si tratti dello Stato centrale (cioè del Tesoro) o delle diverse Autonomie locali, investire con atti ad hoc i manager e gli organi di governo societario di ogni azienda, per un eventuale delibera in tal senso.

Non parliamo poi neanche per celia dell’ipotesi di una norma generale che riguardasse le quotate a controllo pubblico. Giusto per ricordarlo, tra le 40 blue chips che compongono il listino principale di Borsa quasi un quarto sono quotate a controllo pubblico. Che da sole – Eni, Enel, Poste, Leonardo, Saipem, Italgas, Terna e via continuando - sommano circa 160 miliardi di capitalizzazione. Nel loro caso, un eventuale indirizzo associativo difforme dall’attuale potrebbe e dovrebbe solo assumere la forma di una richiesta in tal senso dei rappresentanti dell’azionista pubblico da sottoporre all’assemblea dei soci: e stiamo parlando di compagini nei quali la presenza di fondi d’investimento esteri e italiani arriva anche al 70% del totale.

In ogni caso, l’indirizzo del governo lederebbe l’autonomia e l’indipendenza dei manager alla guida delle società, contribuirebbe ad abbassare il rating per l’emissione di strumenti finanziari e l’accesso al credito, ne darebbe un’immagine come meri enti strumentali agli ordini delle mutevoli politiche dei governi protempore. Nelle quotate, la disciplina societaria e i doveri imposti dalla corporate governance sono tesi al perseguimento dell’utile e della creazione di valore per i fini specifici di ogni azienda, non all’ottemperanza di ordini politici. In sintesi: il rischio enorme cui si esporrebbero primarie grandi aziende italiane, in un Paese che ne ha visto col tempo decrescere purtroppo di molto il numero, sarebbe di deteriorarle nell’immagine e depauperarle in valore.

Per poi, andando alle valutazioni extra econonomiche, fare cosa? Tornare ai tempi dell’Intersind, che dal 1958 con la nascita delle Partecipazioni Statali fino agli anni Novanta riuniva associativamente le aziende pubbliche in un recinto a parte rispetto alle private? La storia di quei decenni fu ricca di accordi contrattuali e sindacali che videro le aziende pubbliche, sotto la regia della politica, contribuire purtroppo in maniera irresponsabile alla dinamica inflattiva e delle bassa produttività. E a scelte d’investimento totalmente sbagliate, esitate in un falò di migliaia di miliardi di lire, dalla Finsider all’Efim. È a questo che si vorrebbe tornare? A una valutazione dell’allocazione del capitale delle imprese, degli investimenti e delle retribuzioni contrattuali, decisa in base alle convenienze elettorali di breve termine? Noi non vogliamo crederlo.

Preferiamo pensare, fino a prova contraria almeno, che si tratti di mere tentazioni emotive, non di ipotesi fondate. Credere di influenzare le imprese private facendo leva sulle quote d’iscrizione associative dei grandi gruppi a controllo pubblico fino al punto di minacciarne l’uscita è una seduzione mefistofelica. Può apparire astuta. Ma alla fine farebbe il male in primis delle società pubbliche, poi dell’economia italiana complessivamente, e non è detto affatto che a quel punto le imprese private non reagirebbero poi con raddoppiato orgoglio alle politiche governative.
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