Il (non) tempio di Minerva Medica

Il (non) tempio di Minerva Medica
di Fabio Isman
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Domenica 2 Dicembre 2018, 12:38
Tutti lo conoscono, almeno per averlo intravisto dal treno, quando arrivano alla stazione Termini; moltissimi, però, lo chiamano con un nome che non è il suo: il cosiddetto tempio di Minerva Medica all’Esquilino è, in realtà, la grande sala di un’importante residenza extraurbana dell’Urbe, forse gli Horti Liciniani, che nel III secolo erano dell’imperatore Licinio Galieno. E quanto si vede è ciò che rimane, con una cupola del diametro di 25 metri ed alta 32 (ma oggi, sono appena 24): la terza più grande in città, dopo quelle del Pantheon e delle Terme di Caracalla. La sala è decagonale. Ai lati del perimetro, altrettante nicchie semicircolari: non tutte si sono salvate, forse ospitavano delle sculture. Probabilmente era un ninfeo: più difficile che si trattasse di un impianto termale. Un tempo era noto come “Le Galluzze”, forse per corruzione dai nomi di Gaio e Licio, ma anche come tempio di Ercole Callaico, altro nome di fantasia. Già Cicerone citava però il tempio di Minerva Medica tra i più antichi.

Durante gli scavi e i restauri, più volte vi sono state ritrovate delle statue: nel XVI secolo, quelle di Minerva, Asclepio e Igea con le figlie; la dea aveva un serpente, il simbolo della medicina, e da qui il nome del complesso. Ma, il secolo dopo, vi è stata rinvenuta pure una famosa Atena: subito acquistata dal marchese Vincenzo Giustiniani, e ne riferiamo a parte la storia, parecchio singolare. Poi, due magistrati romani (uno che sta lanciando la “mappa”: l’atto con cui iniziavano le corse dei carri nel circo), con altre sculture, sono invece estratte a fine Ottocento: esposte ai Musei Capitolini.

L’edificio di via Giolitti è assolutamente maestoso, ed era destinato a funzioni di rappresentanza; è tra quelli più ritratti ed eternati nei secoli, da tanti dei maggiori nomi dei dipinti di paesaggio, o dell’incisione: è sempre stato un “topos” di Roma antica. Davanti all’entrata, è una delle tre absidi, forse aggiunte successivamente: è una sorta di nartece; le altre due, sono ai lati. Dentro il tempio, o meglio ninfeo, rimangono tracce dell’originale decorazione della cupola, con mosaici a pasta vitrea, poi ricoperti da uno strato d’intonaco; alle pareti, c’erano lastre di marmo (ne resta la preparazione a malta, per collocarle). 

Pure il pavimento era un tempo ricoperto di mosaici marmorei e in “opus sectile”: era perfino colorato; però il dettaglio non si apprezza più. Se il monumento era dei più studiati, nei secoli non è stato, purtroppo, tra i più tutelati e difesi dall’incuria del tempo: nel 1828, è infatti crollata la cupola, poi restaurata verso il 1940; e interventi di consolidamento sono più recenti. Se oggi è sacrificato tra le rotaie della stazione e i binari del tram, in passato è stato assunto come archetipo: Maria Rosaria Barbera spiega che «senza di lui, non ci sarebbe stata la basilica di Santa Sofia ad Istanbul».

È la copia romana, dell’età degli imperatori Antonini (circa fino all’anno 190), di un originale greco eseguito dalla fine del V all’inizio del IV secolo; ve ne sono più esemplari in vari musei del mondo, anche ai Capitolini. Quella del cosiddetto tempio di Minerva Medica ha lancia e sfinge sull’elmo, ed avambracci, di restauro. Il marchese Vincenzo Giustiniani la volle per la sua collezione: la più famosa dell’epoca. Parecchi “grandtouristi” si sono fatti ritrarre, con dietro la sua testa, per esempio da Pompeo Batoni. Diversamente dal resto della raccolta, ai tempi di Napoleone non è requisita; nel 1805 quanto resta di quelle proprietà, passa al re di Prussia, Federico Guglielmo III. La Minerva, no: la compera Luciano Bonaparte e la colloca dove viveva, a palazzo Nunez-Torlonia, in via Bocca di Leone. L’acquista Pio VII Chiaramonti: sarà poi nel Braccio nuovo dei musei Vaticani, voluto da Antonio Canova. Dove, per fortuna e osannatissima, ancora è.
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