Steve McCurry, la prima biografia: «Il vero spettacolo è l'essere umano»

Steve McCurry, la prima biografia: «Il vero spettacolo è l'essere umano»
di Nicolas Lozito
7 Minuti di Lettura
Venerdì 16 Novembre 2018, 12:28 - Ultimo aggiornamento: 29 Novembre, 18:11
Per molti Steve McCurry è il fotografo vivente più famoso al mondo. Il suo scatto “Donna afghana”, che ritrae la giovane orfana Nasir Bagh, con gli occhi verdi cristallo e il velo amaranto, è una delle immagini più iconiche del XX secolo, seconda solo agli scatti di Neil Armstrong sulla Luna e il ritratto di Che Guevara. Americano, classe 1950, Steve McCurry ha alle spalle quarantanni di viaggi, scatti e incredibili storie.

Per la prima volta vengono tutte raccolte nella sua prima biografia ufficiale, firmata dalla sorella maggiore e angelo custode Bonnie: “Steve McCurry: Una vita per immagini” (Mondadori Electa, traduzione di Maria Carla Dallavalle, 392pp, 49€). Fotografo e sorella saranno in Itala da domani, dove presenteranno il bellissimo prima alla Nuvola Lavazza di Torino, domenica a Bookcity di Milano. 
 
Una vita per immagini” è il titolo perfetto per riassumere una carriera intera. Lei quando e perché ha iniziato a scattare fotografie? 
«Al college studiavo arte: tra i vari corsi ce n’era uno di fotografia. Ho da subito capito che mi piaceva questo linguaggio. Mi sembrava un incredibile mezzo per viaggiare, esplorare e vedere il mondo in cui viviamo. Non solo, perché mi sembrava che la fotografia avesse un lato contemplativo capace di darmi pace e serenità. Da ragazzo avevo una macchina fotografia, le prime foto le ho scattate in un viaggio di famiglia in Europa, ma ho iniziato a prendere tutto più sul serio dal 1972». 
 
All'inizio della tua carriera lavoravi per un giornale locale di Philadelphia, poi a 27 anni ti sei licenziato. Perché?
«La verità è che all'inizio volevo solo viaggiare, e la fotografia era il modo per farlo. Ho lavorato per il giornale giusto il tempo per mettere da parte qualche soldo. Con questo denaro ho fatto una sola cosa: ho comprato un biglietto di sola andata per l’India. Avevo in mente di stare lì sei settimane, avevo in mente qualche storia da raccontare. Poi però una trasferta di sei settimane sia è trasformata in un viaggio lungo due anni». 

Dopo l’India è arrivato il viaggio in Pakistan e Afghanistan, che l’ha reso famoso. Lei rra l’unico fotografo occidentale riuscito a entrare in Afghanistan prima dell’invasione russa. Ma per tornare in Pakistan con le fotografie, doveva nascondere i negativi dentro i vestiti. Cosa ricorda di quegli anni? 
«Avevo deciso di entrare in Afghanistan senza passaporto, perché non davano visti all’epoca. Ho camminato due e tre giorni per arrivare nelle zone del conflitto e mi sono fermato qualche settimana. Quando sono tornato in Pakistan, però, ho nascosto i negativi nei vestiti, tenendo nella borsa della fotocamera solo dei negativi finti. Ero vestito da afghano, non volevo mi riconoscessero come straniero. Quella prima volta mi andò bene. Ma nel corso degli anni ho passato quel confine almeno 30-40 volte: quattro volte sono stato arrestato, una volta sono stato completamente derubato a un check-point. Un’altra volta, sette uomini armati volevano fermare la mia auto per dei controlli, fingendo di essere membri dell’esercito. Ma avevo dei sospetti, così invece di rallentare ho accelerato. Loro hanno iniziato a sparare, grazie al cielo siamo riusciti a ripararci: se ci fossimo fermati ci avrebbero derubato e magari anche uccisi. Da quella volta ho sviluppato una certa paranoia per dogane e posti di blocco». 

Nessun altro libro contiene così tante sue fotografie. Ha degli scatti preferiti o immagini a cui è più legato
«Non ho mai avuto fotografie preferite. Certo, prediligo i ritratti, ma anche gli scatti che mostrano il comportamento umano e come questo si interfaccia con la natura o con gli animali. Come dico spesso, se sai aspettare, le persone si dimenticano della tua macchina fotografica e la loro anima esce allo scoperto».
 
Tra queste pagine, scritte da sua sorella, troviamo anche aspetti molti intimi della sua vita. Quali sono i momenti peggiori che ha affrontato? 
«Sono nato nel 1950 nella periferia urbana di Philadelphia. Da piccolo giocavo nei boschi, da solo o con le mie due sorelle maggiori, Jean e Bonnie. Mio padre era un ingegnere elettrico e manteneva tutta la famiglia. È cambiato tutto quando nostra madre è morta, avevo otto anni. Dopo la sua scomparsa, mio padre non riusciva a gestire tutta la famiglia, in particolare faticava con me, che ero un ragazzo abbastanza agitato. Così a 12 anni sono stato mandato in collegio, lontano da tutti: è stato il periodo più buio della mia vita. Mi sentivo rinchiuso, ho provato a scappare il prima possibile. Da qui è nata la mia passione per il viaggio e l’esplorazione del mondo. E da qui è nato il mio legame indissolubile con mia sorella. Mi ha sempre incoraggiato e supportato. Da decenni le racconto tutta la mia vita, ci sentiamo anche quando viaggio. Lei era insegnante, ora è in pensione e si dedica alle mie fotografie». 

Sua sorella racconta anche dell’influenza che ha avuto l’11 settembre su di lei.
«L’11 settembre è uno dei momenti peggiori che ho affrontato. Ero a New York quel giorno. Mentre guardavo Ground Zero, prima che crollasse, già capivo che erano tutti intrappolati. Tremila persone, che sarebbero tutte morte. Non si può descrivere quello che avevo di frotne quel giorno. Certo, avevo già visto le tragedie in guerra, nei campi profughi, ma lì c’erano impiegati, poliziotti, vigili del fuoco, altri giornalisti. Decine di migliaia di persone lì: il livello di shock era completamente diverso». 

Quel giorno lei corse verso le Torri mentre tutti scappavano. La polizia ha provato a fermarla, ma lei continuava a scattare. Nel 1983, durante gli scatti per il monsone indiano, ha attraversato i villaggi praticamente sott'acqua, rischiando di annegare. Prima ancora, in Afghanistan, è stato dichiarato due volte. Quando fotografa non ha mai paura? 
«Ho lavorato in molti luoghi pericolosi. E ogni tanto bisogna prendere dei rischi calcolati, pur rimanendo molto attenti. Credo sia fondamentale mostrare il mondo così com’è. Un fotografo documentarista deve mantenere il sangue freddo. Fai il proprio lavoro. Racconta una tragedia nel miglior modo possibile. Senza pensarci troppo su: a volte scatta un autopilota, un misto di intuito e istinto così che le emozioni non ti schiacciano. Dentro sei distrutto, ma devi avere il controllo sufficiente per funzionare. A volte bisogna rinunciare a certi scatti, ma spesso è meglio un rischio calcolato che arrendersi per timidezza e non provare a ottenere il massimo dalla vita». 

Il ritratto della ragazza afghana. I colori saturi. I luoghi incredibili. Per cosa vuole essere ricordato Steve McCurry?
«Più di tutto vorrei essere ricordato per aver fotografato le cose in comune che ci sono tra le persone e le culture. Siamo molto più simili di quanto crediamo. Abbiamo molte meno differenze di quanto ci sembra». 

Lei ha scattato molte foto anche in Italia. Cosa l’ha colpita del nostro Paese?
«Mi sento di dire che l’aspetto migliore dell’Italia sia la sua gente. L’ospitalità italiana è senza rivali. Non c’è posto più amico. Ma anche il vostro rispetto per la cultura e la voglia di preservala. In molti posti del mondo la storia, la cultura, l’architettura è stata completamente distrutta, ma l’Italia mantiene la sua bellezza. Sono convinto che in Italia ci sia di più che in qualsiasi altro Paese». 

Ha visto dei cambiamenti negli ultimi anni? 
«Certo, le città sono diventate più grandi, omogenee, globali, perdendo alcune peculiarità. Ma c’è ancora una fortissima identità italiana: basta guidare in campagna. È un’esperienza unica e incredibile». 

Al giorno d’oggi la fotografia digitale ha cambiato tutto. Come lavora lei? 
«Sono passato anch’io al digitale, e ora lavoro a progetti personali, soprattutto libri e mostre. Viaggio nei luoghi che mi incuriosiscono e posso raccontare le storie che voglio. È cambiato il processo, ma non è cambiato il mio modo di vedere la fotografia, a prescindere dalla tecnica che ci sta dietro».

C’è ancora un futuro per il fotogiornalismo di qualità? Cosa consiglia ai giovani fotografi? 
«Se guardiamo ai lavori dei fotografi che ammiriamo di più, ci rendiamo conto che hanno trovato un luogo o un soggetto specifico, qualcosa che loro hanno reso speciale. Ci vuole pazienza e disciplina. Fatica e tempo. Ma sempre guardando avanti. Rimanendo concentrati, tenendosi occupati. Ai giovani fotografi dico: siate curiosi delle cose attorno a voi, è una componente fondamentale. Ma è anche importante studiare i grandi del passato, fotografi e registi: Cartier-Bresson, Dorothea Lange e W. Eugene Smith, André Kertesz. Ma anche Fellini, De Sica, Rosselini, per nominarne alcuni». 

Lei smetterà mai di fotografare? Che storia non ha ancora raccontato?
«Vorrei ancora raccontare alcuni luoghi a me cari, come il Madagascar e l’Iran. Ma non c’è pensione in questo settore. Perché non è un lavoro. Questa è la mia passione. La mia arte». 
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