Michelle Obama, ecco la biografia: «Volevo fare la pediatra, ma sono diventata first lady»

Michelle Obama, ecco la biografia: «Volevo fare la pediatra, ma sono diventata first lady»
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Martedì 13 Novembre 2018, 14:24

L'ex first lady Michelle Obama si racconta in "Becoming", un'autobiografia che promette di far discutere per i particolari molto interessanti sulla sua esperienza alla Casa Bianca, ma anche sulla sua vita personale. Nel libro - edito da Garzanti - la moglie dell'ex presidente degli Stati Uniti racconta : «Da bambina, le mie aspirazioni erano semplici. Volevo un cane. Volevo una casa con la scala interna, due piani per una famiglia. Volevo, per qualche motivo, una station wagon a cinque porte invece della Buick a due che rappresentava l'orgoglio e la gioia di mio padre. Dicevo che da grande avrei fatto la pediatra. Perché? Perché mi piaceva avere a che fare con i bambini, e imparai presto che agli adulti faceva piacere sentirselo dire. Oh, il medico! Che bella scelta! A quei tempi portavo le treccine, comandavo a bacchetta mio fratello maggiore e riuscivo, sempre e comunque, a prendere il massimo dei voti a scuola. Ero ambiziosa, anche se non sapevo esattamente quali fossero i miei obiettivi».

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«Adesso credo che 'Cosa vuoi fare da grande?' sia una delle domande più inutili che un adulto possa rivolgere a un bambino. Come se crescere fosse un processo che a un certo punto finisce. Come se a un certo punto si diventasse qualcosa e basta, fine della storia. Nella mia vita, finora, sono stata avvocato, dirigente di un ospedale e direttore di un ente non profit che aiuta i giovani a costruirsi una carriera. Sono stata una studentessa nera della working class in un costoso college frequentato in prevalenza da bianchi. Sono stata spesso l'unica donna e l'unica persona afroamericana presente nella stanza, in molte stanze diverse. Sono stata moglie, neomamma stressata, figlia lacerata dal dolore del lutto».

«E, fino a non molto tempo fa, sono stata la first lady degli Stati Uniti d'America, un lavoro che ufficialmente non è un lavoro, ma che mi ha offerto una tribuna che mai avrei immaginato. Mi ha stimolato e mi ha reso umile, mi ha tirato su il morale e abbattuto, a volte nella stessa circostanza. Solo ora comincio a elaborare quanto è accaduto in questi ultimi anni, da quando, nel 2006, mio marito cominciò a parlare dell'idea di candidarsi alla presidenza, fino alla fredda mattina di gennaio in cui sono salita su una limousine con Melania Trump per accompagnarla alla cerimonia d'insediamento di suo marito. Un bel viaggio, non c'è che dire. Agli occhi di una first lady, l'America si mostra in tutte le sue contraddizioni. Ho partecipato a raccolte di fondi in case private che sembrano musei, case di gente che ha la vasca da bagno tempestata di pietre preziose. Ho visitato famiglie che avevano perso tutto nell'uragano Katrina e piangevano lacrime di gratitudine per avere almeno il frigorifero e la stufa funzionanti. Ho incontrato persone che si sono rivelate vuote e ipocrite e altre - insegnanti, mogli di militari e molte ancora - con uno spirito così forte e profondo da lasciarmi a bocca aperta».

«E ho incontrato bambini - tanti, in ogni parte del mondo - che mi hanno fatto ridere a crepapelle e riempito di speranza, e che si scordavano beatamente del mio titolo e del mio ruolo non appena cominciavamo a frugare nel terriccio di un orto. Da quando, con riluttanza, mi sono affacciata alla vita pubblica, mi hanno esaltata come la donna più potente del mondo e demolita dandomi della "donna nera arrabbiata". Ho chiesto ai miei detrattori a quale parte della definizione tenessero di più: "nera", "arrabbiata" o "donna"? Ho posato sorridente per i fotografi, accanto a persone che in televisione ricoprivano mio marito di insulti terribili, ma volevano ugualmente una foto ricordo da tenere sulla mensola del caminetto. Mi è stato raccontato delle zone poco limpide del web in cui si mette in dubbio qualsiasi particolare mi riguardi, perfino che io sia davvero una donna. Un membro del Congresso in carica ha fatto battute sul mio didietro».

«Mi sono sentita ferita. Mi sono arrabbiata. Ma nella maggior parte dei casi ho cercato di riderci su. C'è ancora molto che non so dell'America, della vita, di quel che potrebbe riservarci il futuro. Ma conosco me stessa. Mio padre, Fraser, mi ha insegnato a lavorare sodo, ridere spesso e mantenere la parola data. Mia madre, Marian, mi ha mostrato come pensare con la mia testa e far sentire la mia voce. Insieme, nel piccolo appartamento nel South Side di Chicago, mi hanno aiutata a riconoscere il valore della nostra storia, della mia storia, all'interno di quella, più grande, del nostro Paese. Anche se non è bella o perfetta. Anche se è più dura di quanto vorresti che fosse. La tua storia è quello che hai, quello che avrai sempre. Non dimenticarla mai».

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