Umanamente sostenibile: non è solo uno slogan

Umanamente sostenibile: non è solo uno slogan
di Osvaldo De Paolini
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Giovedì 8 Novembre 2018, 15:01 - Ultimo aggiornamento: 9 Novembre, 15:02
Sostenibilità. Secondo l'Enciclopedia Treccani, «nelle scienze ambientali ed economiche, sostenibilità è la condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri».

Una fredda ma perfetta sintesi di un concetto che nel tempo si è straordinariamente arricchito abbracciando gran parte delle numerose attività umane. L'uso della parola sostenibilità fece il suo esordio nel corso della prima conferenza Onu nel 1972 in tema di ambiente, ma è solo nel 1987, con la pubblicazione del cosiddetto Rapporto Brundtland, che viene definito con chiarezza l'obiettivo dello sviluppo sostenibile che, dopo la conferenza del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppo stesso. In verità, l'esigenza di conciliare crescita economica ed equa distribuzione delle risorse in un nuovo modello di sviluppo ha iniziato a farsi strada già alla fine degli Anni Settanta, in seguito all'avvenuta presa di coscienza del fatto che lo sviluppo classico, legato esclusivamente alla crescita economica, avrebbe causato nel tempo il collasso dei sistemi naturali.

Dunque, già allora apparve chiaro che la crescita economica di per sé non basta, che lo sviluppo è reale solo se migliora la qualità della vita in modo duraturo. C'è infatti differenza tra il bene totale, sinteticamente rappresentato dalla ricchezza prodotta da un Paese che viaggia sotto il nome di Pil, e il bene comune che è invece il bene di ciascuno e di tutti.

È pur vero che il grado di sviluppo di un Paese viene tradizionalmente misurato con il Pil, oppure con l'energia utilizzata da ciascun cittadino. C'è tuttavia chi, a sostegno di una polemica che vede nello sviluppo sostenibile un contenitore zeppo di banali buoni propositi oltre che di insostenibili accostamenti tra economia e ambiente, propone di considerare la quantità di rifiuti prodotti per valutare il grado di sviluppo di una comunità.
Ora, di là di ogni pregiudizio, il tema è di un certo interesse perché è innegabile che la civiltà industriale forse proprio nei rifiuti trova il suo più autentico metro di misura, la sua caratterizzazione. È infatti con l'industrializzazione intensiva e con i beni di consumo di massa, in particolare con la rivoluzione petrolchimica della plastica, che i rifiuti diventano un problema, prima nelle grandi città, poi nell'intera società contemporanea.

Al punto che l'ambientalista Giorgio Nebbia non esita a sostituire l'espressione società dei consumi con società dei rifiuti. Un modo oggettivamente un po' sbrigativo per liquidare la questione. Però è anche vero che nel mentre consumiamo, noi trasformiamo beni materiali che consideriamo utili in altri che riteniamo inutili e quindi da gettare: i rifiuti appunto. D'altro canto, non è da ieri che dalla lavorazione-trasformazione dei rifiuti otteniamo energia, fertilizzanti e una gran quantità di riciclo e di materiale rigenerato. È dunque il concetto stesso di produzione che sta cambiando e questo processo, che sta vivendo la fase più delicata per le numerose implicazioni che si porta, dovrebbe essere sostenuto con convinzione dalla politica e incentivato finanziariamente affinché l'obiettivo di una economia circolare e integrata venga raggiunto prima possibile.

Tra l'altro, visto che le nuove tecnologie porteranno certamente in breve tempo a cancellare un gran numero di posti di lavoro e molte professioni divenute obsolete, in attesa che sorgano nuove modalità di impiego lo sviluppo di un nuovo processo produttivo, finalizzato alla trasformazione dei rifiuti in nuovi beni di consumo, sarà certamente di aiuto alla creazione di nuova occupazione. Per dirla con le parole di Enrico Giovannini, ci vuole rispetto per l'industria, senza la quale non c'è sviluppo; e tuttavia non possiamo sottrarci a una fase di transizione che non sarà indolore ma che è destinata a rendere la vita meno problematica a quanti verranno dopo di noi: il bene comune non ha bisogno di inseguire i pifferai della decrescita felice, ma deve stare al passo di chi sa promuovere una crescita compatibile con il futuro. Sostenibile, appunto.
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