Conseguenze del voto/The Donald, stessa rotta finché manca uno sfidante

di Alessandro Orsini
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Giovedì 8 Novembre 2018, 00:05
Trump ha riportato una sconfitta di successo. Ha incrementato di poco il numero dei seggi al Senato, ma ha perso in modo significativo alla Camera. Sul piano della leadership personale, gli basta. È infatti sufficiente a confermare la sua candidatura alle presidenziali del 2020. Sul piano della politica interna ed estera, il voto non annuncia cambiamenti significativi. La politica americana è concepita per non creare “contraddizioni di sistema” che ostacolino il dispiegamento della volontà popolare. Detto più semplicemente, il sistema politico riconosce al presidente una serie di poteri che lo pongono nella condizione di rispettare gli impegni con gli elettori, pur perdendo il controllo del congresso. 
Si ricordi che, nelle elezioni di medio termine del 2014, il partito democratico perse Camera e Senato. Eppure, il 14 luglio 2015, il democratico Obama firmò ugualmente gli accordi sul programma nucleare dell’Iran, nonostante l’opposizione furiosa di Netanyahu che poteva contare su tanti deputati repubblicani. Se gli americani hanno votato per il programma elettorale repubblicano alle presidenziali del 2016, Trump deve avere la possibilità di realizzarlo. Non a caso, i soldati americani continuano a ricoprire di filo spinato il ponte che separa gli Stati Uniti dal Messico per respingere i migranti provenienti dall’Honduras. 

Trump ha anche il potere di bombardare un Paese straniero facendo sì che l’attacco dia origine a una guerra. Dalla seconda guerra mondiale a oggi, i presidenti americani hanno condotto varie guerre, senza mai una dichiarazione di guerra da parte del congresso. Per capirci, quella spaventosa mattanza che è stata la guerra del Vietnam, l’invasione dell’Afghanistan del 2002, quella dell’Iraq del 2003, il bombardamento della Libia del 2011, l’intervento militare contro l’Isis in Siria e in Iraq, il tentativo di rovesciare Assad e i missili lanciati contro Damasco, sono avvenuti in assenza di dichiarazioni di guerra. Se domani Trump venisse a sapere che in Venezuela si nasconde un gruppo di terroristi, potrebbe bombardare Maduro. Gli americani hanno eletto un presidente che ha promesso di danneggiare l’Iran in tutti i modi possibili e immaginabili e non ci sono elezioni di medio termine che possano capovolgere la volontà popolare. Gli Stati Uniti funzionano così.

Come Obama fece la pace con l’Iran, avendo contro entrambi i rami del congresso, Trump potrebbe fare la guerra, avendo contro soltanto un ramo. Lo stesso discorso vale per la linea politica di Trump verso Cina, Unione Europea, Corea del Nord, Libia, Siria e Israele. 
<HS9>Persa la Camera, Trump non ha cambiato nemmeno il suo modo tipico di comunicare. Il suo impeto anti-istituzionale è addirittura cresciuto. Mentre scriviamo, minaccia la nuova maggioranza democratica alla Camera di non azzardarsi a indagarlo per corruzione e ostruzione della giustizia. La minaccia è formulata “alla Trump” ovvero in un modo inconcepibile per il capo di una grande democrazia liberale. Trump ha dichiarato che, se la Camera democratica avvierà le indagini, il Senato repubblicano si vendicherà indagando i più alti esponenti democratici. Da un punto di vista liberale, qualunque Senato che sia a conoscenza di un crimine commesso da qualsivoglia deputato dovrebbe indagare senza fare scambi. Il tutto è stato annunciato con un tweet. È presto per sapere se Trump sia più forte o più debole di prima: la forza si misura dai fatti e non dalle parole. Di certo resta guerrafondaio, anche perché la campagna presidenziale è, di fatto, già iniziata. Gli uomini, come i popoli, tendono a scolpire le vittorie nella mente. Chi ha vinto con la guerra, è con la guerra che cercherà di vincere di nuovo. Chi ha perso per la guerra, sarà incline al pacifismo, come gli italiani e i giapponesi dopo i disastri della seconda guerra mondiale. Non avremo mai un Trump moderato. 

<HS9>Quanto al partito democratico, è privo di un leader. Questa assenza è stata amplificata dall’impegno di Obama nella campagna elettorale di medio termine. Non si ricorda, negli ultimi 75 anni, un ex presidente americano attaccare in modo così frontale un presidente in carica, come ha scritto Peter Baker sul New York Times. Obama è sembrato il candidato democratico alle prossime presidenziali, ma non può esserlo. Il che aiuta a comprendere bene ciò che il partito democratico non è ovvero un partito con un leader. Non ne ha uno e non immagina quale potrebbe essere, a due anni dal voto decisivo. 

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