I 25 anni del Trattato/ Tutti gli squilibri figli di Maastricht

di Giulio Sapelli
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Venerdì 2 Novembre 2018, 00:02
La Mosa è un fiume che nasce in Francia, scorre in Belgio e Paesi Bassi per mille chilometri e sfocia nel mare del Nord. Sulle sue rive durante la Prima Guerra Mondiale si elevarono quelle cattedrali di cadaveri di soldati francesi e tedeschi che fecero disperatamente gridare a Rosa Luxemburg, prima di essere assassinata con Karl Liebneckt nel 1919 dai gruppi para-militari della destra nazionalista: «Proletari, unitevi in pace, sgozzatevi in guerra!». Simbolicamente su quelle rive della Mosa, nell’afflato di impedire nuove guerre e nuove tragedie, nel 1992 dodici Stati membri dell’allora Comunità Europea firmarono il Trattato di Maastricht che pose le basi per le regole politiche e i parametri economici e sociali dell’Unione: il Trattato entrò in vigore il primo novembre 1993, venticinque anni fa.
Già la Dichiarazione solenne sull’Unione adottata dal Consiglio di Stoccarda nel giugno 1983 si proponeva la realizzazione di un’unione politica dell’Europa, ma fu solo la riunificazione tedesca dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1989 e la decisione del cancelliere Helmut Kohl di accelerare il processo di aggregazione che segnò l’avvento dell’Unione Europea così come oggi la conosciamo. Il francese Francois Mitterand, infatti, temeva fortemente, e con lui Giulio Andreotti, la rinascita di una Germania inevitabilmente troppo forte perché non più divisa, per non caratterizzarsi nuovamente come elemento di sgretolamento della stabilità continentale. Si credette allora, con un errore che solo la storia potrà giudicare, che l’accelerazione dell’Unione fosse l’unica strada capace di costringere la potenza tedesca, grazie a barriere giuridiche e vincoli politici, a limitare la sua capacità espansiva, non più militare dopo il disarmo imposto dagli Usa, ma economica e politica.
Dapprima parve che tutto ciò fosse possibile. Sicché, dopo aver sopito non pochi contrasti relativi al sistema di potenza internazionale, venne scelto il modello di unificazione già attuata con la politica agricola europea, che incorpora proposte federaliste in una cornice in cui agli Stati-nazione vengono concesse rappresentanze elettorali senza potere compulsivo (il Parlamento europeo) e agli accordi inter-governativi (il Consiglio europeo) l’iniziativa di “direttive” rispetto ai parlamenti nazionali, che sono emanate dalla Commissione europea, sottraendo via via poteri ai popoli così da creare un sempre più forte potere tecnocratico. Un potere in grado di bloccare le decisioni delle rappresentanze parlamentari dei singoli Paesi quando esse non aderiscono al potere decisorio dell’invisibile tecnostruttura. In essa si riflettevano e si riflettono gli equilibri di potenza nazionali, impossibili da eliminare e quindi attivi più che mai secondo il potere delle lobbies nazionali e di interesse.
Il disvelamento di questo meccanismo risiede nell’accordo raggiunto in merito alle politiche economiche e alla fisionomia delle istituzioni che dovrebbero inverarle, a partire dalla moneta unica e dallo statuto della Banca centrale europea. E’ significativo, per far comprendere che le pulsioni pro-Brexit non nascono ieri, che si inserì, nell’ambito della discussione che ne sorse sin da subito, la cosiddetta “clausola di opting-out“ attraverso la quale la Gran Bretagna avrebbe potuto rimanere nella futura Unione pur senza accogliere le innovazioni che il suo governo rifiutava, tanto che il Regno Unito non adottò, come è noto, l’euro come moneta. Ecco emergere per la prima volta l’idea di un’Europa a due velocità.
Al Trattato di Maastricht, in un confronto continuo e incessante tra Germania e Francia e Regno Unito, con l’Italia sempre più indebolita sul piano negoziale (Guido Carli firmò l’adesione non a caso con mano tremante), si affidò il compito di costruire l’Unione economica e monetaria nel segno della stabilità dei prezzi. Di qui lo statuto della Bce sul modello della Bundesbank e non, invece, della Federal Reserve, che ha come missione sia la stabilità sia la crescita. 
Gli Stati europei furono da allora obbligati per via di trattato a perseguire «condizioni finanziarie e di bilancio sane ed equilibrate». Nessuno spazio per politiche redistributive alternative a quelle affidate al mercato e al principio di concorrenza. Come ha ricordato Alessandro Mangia: «La libera circolazione dei capitali vanificava il ricorso alla leva fiscale, mentre l’indebitamento veniva impedito dal divieto di finanziamenti monetari di deficit». Sul piano formale le politiche economiche erano e sono di competenza degli Stati, a cui però le politiche monetarie di Bruxelles sottraggono, grazie al Trattato, qualsiasi spazio di manovra. Questa soluzione dettata dall’accordo precario tra regolatori francesi e ordo-liberisti tedeschi, fu l’inizio del processo di imposizione non liberale del modello economico neo-liberalista, minacciando così di azzerare quell’equilibrio tra capitalismo e democrazia che è stato, invece, l’innovazione geniale dell’anglosfera, e che ha raggiunto il suo acme negli anni Settanta del secolo scorso. 
I limiti al deficit e al debito non sono i soli strumenti utilizzati per rendere l’Europa unita in una costruzione neoliberista, sacrificando così la partecipazione democratica sull’altare del cosiddetto libero mercato: Maastricht ha aggiunto a quei limiti il divieto per i Paesi membri di ricorre all’assistenza finanziaria dell’Unione, di altri Paesi membri o delle Banche centrali. In questo modo gli Stati che hanno bisogno di denaro devono rivolgersi al mercato, e questo finisce per assumere la funzione di disciplinare il loro comportamento, o se si preferisce di spoliticizzarlo. Questa è l’Europa che abbiamo costruito e che è oggi sottoposta a una serie di terremoti delle sue faglie profonde, dalla Baviera alla Catalogna, al Regno Unito. Un effetto in larga parte non previsto, ma certo prevedibile. L’euro si incardinò, secondo il Trattato e gli accordi che ne seguirono, in una costruzione istituzionale che danneggia l’Italia più di ogni altra nazione, a differenza di ciò che pensavano coloro che quel Trattato sottoscrissero.
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