Provenzano, Strasburgo condanna l'Italia per il rinnovo del 41 bis: I giudici: «Inumano»

Provenzano, Strasburgo condanna l'Italia per il rinnovo del 41 bis: I giudici: «Inumano»
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Giovedì 25 Ottobre 2018, 11:45 - Ultimo aggiornamento: 26 Ottobre, 12:13

Il rinnovo del carcere duro per il boss Bernardo Provenzano ridotto, negli ultimi periodi della sua vita, a poco più di un vegetale, ha violato il suo diritto a non essere sottoposto a un trattamento inumano e degradante. Nella sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) che condanna l'Italia per aver costretto fino alla morte il padrino di Corleone al regime penitenziario speciale non c'è una bocciatura del 41 bis. 

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I giudici, che chiudono la lunghissima battaglia portata avanti dal legale del capomafia, l'avvocato Rosalba Di Gregorio, esprimono però pesanti dubbi sulla necessità di sottoporre un uomo dalle capacità mentali «gravemente deteriorate», come era Provenzano, alle restrizioni che il 41 bis impone. «Quella che abbiamo combattuto è stata una lotta per l'affermazione di un principio e cioè che applicare il carcere duro a chi non è più socialmente pericoloso si riduce ad una persecuzione», commenta la penalista. 

 



«Se lo Stato risponde al sentimento di rancore delle persone, alla voglia di vendetta, lo fa a discapito del diritto. - sottolinea invece il figlio del capomafia, Angelo, - Questo credo sia ciò che la Corte di Strasburgo ha affermato sul 41 bis applicato a mio padre dopo che era incapace di intendere e di volere». Come era prevedibile il caso Provenzano apre le porte a un dibattito che diventa politico. «La Corte europea di Strasburgo ha 'condannatò l'Italia perché tenne in galera col carcere duro il 'signor' Provenzano, condannato a 20 ergastoli per decine di omicidi, fino alla sua morte. Ennesima dimostrazione dell'inutilità di questo ennesimo baraccone europeo. Per l'Italia decidono gli italiani, non altri», dice il ministro dell'Interno Matteo Salvini. Un attacco alla Cedu condiviso dal vicepremier Luigi Di Maio che scrive «la corte non sa di cosa parla». Meno netto il guardasigilli Alfonso Bonafede che afferma di rispettare la sentenza pur ribadendo che «il 41 bis non si tocca»; considerazione condivisa dalla sorella del giudice Giovanni Falcone, Maria. Mentre per il capo della Dna Federico Cafiero De Raho «evidentemente alla Corte europea non è stata riportata la situazione italiana e non è stata fotografata la forza delle mafie e l'esigenza che i mafiosi non comunichino con l'esterno dei penitenziari». Ma la corte di Strasburgo, che comunque non liquida alcun danno alla famiglia Provenzano, non esprime alcun giudizio sull'istituto cosiddetto 'carcere durò, sottolineando piuttosto di «non essere persuasa che il governo italiano abbia dimostrato in modo convincente che il rinnovo del regime del 41bis» avvenuto a marzo 2016 «fosse giustificato». Secondo i giudici, i documenti medici forniti dal governo italiano dimostrano che le già compromesse funzioni cognitive di Provenzano erano peggiorate nel 2015 e che nel marzo 2016 erano «estremamente deteriorate». La «gravità della situazione», osserva ancora la Corte nella sentenza, doveva quindi essere presa in considerazione con maggiore attenzione nel decidere il rinnovo del 41 bis. I giudici evidenziano che nella decisione non c'è invece alcuna menzione dello stato mentale del boss e che manca «una valutazione autonoma del ministero della Giustizia sulle condizioni di Provenzano al momento del rinnovo del 41 bis». La condanna dell'Italia da parte della Corte riguarda tuttavia solo il prolungamento del regime carcerario speciale. Nella sentenza gli stessi togati, dopo aver «valutato tutti i fatti», riconoscono infatti che la permanenza del boss in prigione non ha «di per sé» violato il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. «La detenzione di Provenzano non può essere considerata incompatibile con il suo stato di salute e la sua età avanzata», scrivono aggiungendo che non può neanche essere sostenuto che «la sua salute e il suo benessere non siano stati protetti, nonostante le restrizioni imposti dalla detenzione».

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