Stefano Sollima: «Il mio "Soldado" ha stregato Hollywood»

Stefano Sollima: «Il mio "Soldado" ha stregato Hollywood»
di Gloria Satta
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Venerdì 12 Ottobre 2018, 10:58 - Ultimo aggiornamento: 17:37

«Niente regole, questa volta». Hanno deciso di giocare sporchissimo Josh Brolin e Benicio Del Toro, agenti ultra-spregiudicati al servizio della Cia per scatenare una guerra tra i cartelli messicani della droga: scoperto il business dell'immigrazione, i narcos infiltrano negli Usa i terroristi islamici e vanno sgominati. In un crescendo di adrenalina tra spettacolari sequenze d'azione, attentati, rapimenti, carneficine, Soldado, il debutto hollywoodiano di Stefano Sollima, è stato battezzato da critiche inneggianti e ottimi incassi (50 milioni di dollari negli Usa, 23 nel resto del mondo).

«Sequel ma non troppo» del cult Sicario di Denis Villeneuve, costato 35 milioni di dollari, il film esce il 18 ottobre in 400 sale italiane. Romano, 52 anni, figlio del grande regista Sergio Sollima, Stefano (che ha finito di girare la serie Zero zero zero dal best seller sul narcotraffico di Roberto Saviano) racconta la sua avventura.
 


Perché gli americani hanno chiamato proprio lei?
«Volevano un film diverso. E dal momento che sono attentissimi ai talenti stranieri, mi hanno affidato il progetto dopo aver visto quello che avevo già fatto: Suburra, la serie Gomorra, perfino il mio primo film Acab».
È andato tutto liscio sul set? «Certo. È stata un'esperienza più facile e più fluida del previsto. Mi hanno dato libertà, mezzi illimitati e ho potuto realizzare tutte le mie idee, anche le più costose».

Nessun risvolto negativo, nessun contrasto?
«No. I problemi, all'inizio, erano tutti nella mia testa dato che per la prima volta giocavo nella Champions League del cinema. Avevo paura di perdere la mia specificità».

E in che cosiste?
«A Hollywood ho portato il mio sguardo amorale sulla realtà che ho raccontato senza giudizi e senza timidezza. È il motivo per cui Soldado non è il sequel di Sicario, pur muovendosi nello stesso universo, ed è scomparso il personaggio di Emily Blunt, l'agente dell'Fbi del film di Villeneuve: era il filtro morale della storia».

Quanto è libero, a Hollywood, un regista?
«Dipende da lui. E io, che fin dall'inizio avevo messo nel conto il rischio di dover subire pressioni o imposizioni, non ho mai perso la calma. Mi ha aiutato il mio cinismo di romano over 50: sono partito per vivere una bellissima avventura ma, se fosse andata male, non sarebbe stato un dramma. Per fortuna non ho dovuto combattere».

Quanti capricci hanno fatto le star Brolin e Del Toro?
«Nemmeno uno. Sono stati disponibilissimi e generosi lavorando fino a 17 ore al giorno. A tu per tu con Benicio, ho dovuto tenere a freno il fan che era in me: possibile, mi ripetevo sul set, che sto dando ordini a questo mito e per di più lui mi sta a sentire?».

Le è venuta la tentazione di trasferirsi a Hollywood?
«No, e perché? Soldado ha rappresentato una vacanza, ma casa mia è l'Italia. Tornerò semmai in America per dirigere Call of Duty, il film ispirato al celebre videogioco attualmente in fase di sviluppo».

A che punto è Colt, il progetto postumo di Sergio Leone che le è stato affidato dai figli Raffaella e Andrea?
«Stiamo scrivendo la serie, protagonista una pistola che passa di mano in mano. Riporteremo il western alle sue origini».

Visto da Hollywood, com'è il cinema italiano di oggi?
«Più apprezzato che mai. Negli ultimi anni non ci sono stati tanti registi come Luca Guadagnino, Matteo Garrone, Gabriele Muccino, Saverio Costanzo, capaci di far brillare l'Italia al di fuori dei confini».

I suoi film parlano di droga, criminalità, corruzione: dirigerebbe una commedia, una storia d'amore, un musical?
«Solo se alla fine si sparano tutti».

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