Peter Brook: «Il teatro deve mettere al lavoro l'immaginazione»

The Prisoner, regia di Peter Brook, al Teatro Vittoria di Roma dall'11 al 20 ottobre
di Simona Antonucci
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Mercoledì 10 Ottobre 2018, 16:28 - Ultimo aggiornamento: 16:29

Il bastone che lo aiuta a camminare, con l’impugnatura d’argento, lo agita per spiegare che cosa è il teatro: «Lo allunghi in avanti e smuovi un esercito, lo avvicini a te e attiri l’attenzione, lo fai battere a terra e c’è il silenzio, lo dimeni in aria e scoppia la guerra. La scena non ha bisogno di altro. Gesto e parole. Lo spettacolo prende forma nel momento in cui c’è qualcuno che parla e qualcuno che ascolta».
 

 

Peter Brook, maestro di 93 anni, che ha rivoluzionato tutto quello che è successo davanti e dietro un sipario, presenta The Prisoner”, spettacolo in scena al Teatro Vittoria di Roma dall'11 al 20 ottobre per il Festival Romaeuropa, dopo il debutto parigino di marzo scorso. «Non sono andato alla ricerca di un’idea - ricorda - era dentro di me. Veniva da un lontano viaggio in Afghanistan che feci prima dell’invasione sovietica».

Doveva diventare un film e poi tirando giù appunti, ripercorrendo i ricordi, con la sua inseparabile e insostituibile coregista Marie-Hélène Estienne, l’illuminazione: una pièce, l’ultima di forse cento o più.  «Perché abbiamo aspettato tutto questo tempo non lo so - spiega Brook, con gli occhi di un azzurro assoluto incorniciato dall’avorio dei capelli - A un certo punto scatta un’urgenza e le emozioni vogliono venire fuori ed essere trasmesse».


Le luci si accendono su una scena scarna, pochi elementi, pochi colori, cinque attori per cercare di sviscerare la ricchezza e la profondità di alcuni temi che accompagnano l’umanità da sempre: il crimine, la pena, la giustizia, il pentimento, la redenzione.

Un ragazzo è seduto davanti a una prigione, da giorni e per chissà quanti ancora. Per scelta, per scontare un crimine? Perché non fugge?
«È lì per trovare la sua prigione - aggiunge Brook - e dentro di sé cerca la sua guarigione».

Come è nato lo spettacolo?

«Da quel viaggio e dall’incontro con un maestro Sufi, verso Kandahar. Mi raccontò di suo nipote, un ragazzo che se avesse ricevuto tenerezza e non violenza sarebbe potuto diventare una persona speciale. E invece il destino lo condanna. Vede suo padre a letto con sua sorella e lo uccide. Follia, impeto, gelosia verso un padre forte. E verso una sorella probabilmente oggetto delle sue prime attenzioni sessuali».

E come si arriva a questa inedita condanna? Seduto davanti a una prigione e non rinchiuso in una cella?
«Quando arrivai fu come assistere a una tragedia greca. Il maestro Sufi aveva convinto i giudici che questa condanna sarebbe stata più pesante in assoluto. E più utile. Affrontare le proprie colpe attuando un percorso doloroso nella gabbia della propria anima è durissimo. Nelle prigioni invece si peggiora. Ed è assolutamente così anche qui in Europa. Oggi, l’80 per cento dei detenuti non migliora. Anzi, sono molti quelli che diventano terroristi».

Secondo lei è vicenda che ha una qualche attinenza con il nostro modo di vivere e di affrontare crimini e condanne?
«Mettere in scena un testo pensando che sia contemporaneo è un modo stupido di affrontare il teatro. È come ipotizzare di attualizzare Amleto recitando “Essere o non essere” al telefono. La contemporaneità sta... nella pancia. Non c’è da chiedersi se quello che è successo decine di anni fa a quel ragazzo, in mezzo al deserto, può essere riproposto qui. Il teatro è immaginazione».

E il regista chi è?
«Uno che racconta storie insieme con gli attori. Esattamente come gli storytelling africani, orientali. O come fanno i genitori con i bambini. Il mio lavoro Mahabharata non mi ha mai abbandonato. Il teatro deve parlare all’immaginazione. Deve svegliarla, metterla al lavoro. E quando l’immaginazione lavora, è felice».

The prisoner accende il cuore oltre che l’immaginazione sul tema del perdono. Le è mai capitato di doversi far perdonare?
«Si.
Certo. Ma non dirò mai perché».

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