Duello con il governo/ Gli industriali e l’ombra della piazza

di Mario Ajello
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Martedì 14 Agosto 2018, 00:34
«Nessuno è perfetto, e infatti eccoci qui». Lo disse, scendendo in piazza nel 1986, insieme a imprenditori e commercianti contro l’eccessiva pressione fiscale, un geniale economista liberale, uno dei migliori, per acume, per scienza e per ironia, che l’Italia abbia mai avuto: Sergio Ricossa. Si sentiva strano, in una marcia di protesta, uno come lui, borghese illuminato: «Ma si può andare in piazza - avvertì - pure con la cravatta, non serve per forza la tuta blu». 

A riprova di questo, e senza scomodare il mitico precedente della Marcia dei 40.000 nel 1980 a Torino che cambiò la storia italiana, basti vedere - se davvero ci sarà - la protesta di piazza che il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha evocato come risposta al decreto Dignità, che agli imprenditori non piace. Nessun intento hard, naturalmente, e guai a chi parla - negli ambienti sinistresi già si fa, rimasticando malamente Gramsci - di sovversivismo della classi dirigenti. Ma figuriamoci. Semmai, la possibile protesta di piazza segnala - ci si passi il gioco di parole - lo spiazzamento che gli imprenditori sembrano vivere in questa fase. 

E che li spinge a forme di protesta irrituali. Il paradosso di categorie legate quasi per statuto ai concetti di ordine e di stabilità, e che in questo caso si fanno movimentiste contro natura, è evidente. Ma nasce dalla una sensazione di isolamento che gli imprenditori - non solo quelli del nord-est che hanno chiesto aiuto al governatore leghista Zaia nei confronti del governo a loro dire troppo a trazione grillina - stanno sentendo nei confronti di entrambi i partner dell’esecutivo. Da una parte, c’è l’estraneità, anzi l’opposizione, rispetto a quello che per loro ormai è un blocco politico-sociale potente: formato da M5S e Cgil. E non c’è dubbio, basti pensare all’assenso della Camusso verso il decreto Dignità, che questa intesa o osmosi esista tra una Cgil che vuole ottenere cose che solo questo governo può darle e i grillini ministeriali che hanno tutto l’interesse a crearsi una sponda nel sindacato di sinistra i cui aderenti per lo più hanno votato cinque stelle. Dall’altra parte, l’isolamento degli industriali sta nella richiesta di attenzione nei confronti della Lega, il partito votato in larga misura dal ceto delle piccole e medie aziende, ma che il Carroccio per ragioni di stabilità del nuovo sistema, ossia per preservare l’accordo con i grillini, tende a non ascoltare o a chiudere un occhio in nome della realpolitik. 
Insomma, la piazza come strano prodotto, inaspettato, specie a inizio legislatura, di una frattura che si è creata nel Paese. È saltato il dialogo tra corpi intermedi e politica, è andato in cortocircuito il rapporto tra governo e forze imprenditoriali. E la piazza ne è un sintomo e una conseguenza. Diventa una risposta eterodossa a un problema profondo. 

Qualcuno, per un riflesso condizionato, potrebbe azzardare il paragone con la Marcia dei 40.000. Ma il contesto di allora non è quello di oggi. Nel 1980 si trattava di bloccare l’occupazione di Mirafiori, e i quadri intermedi di fabbrica marciarono per la libertà e per il diritto al lavoro (“Novelli, Novelli, fai aprire i cancelli”, gridavano al sindaco comunista), contro lo strapotere sindacale e il lassismo corporativo (“No al sindacato padrone”, dicevano i cartelli), contro una visione anti-industrialista della sinistra tardo berlingueriana (“Il reddito aziendale è anche nazionale”, gridavano i marciatori guidati dal mitico Arisio). Un altro mondo, insomma. Quello odierno, per fortuna, non ha una dimensione epica. E nella possibile protesta degli imprenditori rientrano fattori anche personali e umani, che pure sono importantissimi. 

Si dice spesso che dove non arriva la politica arriva l’antropologia. Eppure, il ministro dello Sviluppo economico, Di Maio, e il presidente di Confindustria, Boccia, sono campani. Uno di Pomigliano, l’altro di Salerno. Ma hanno difficoltà di comunicazione. L’etnos, la comunanza delle radici tra protagonisti che nella storia italiana ha avuto una funzione di governo, stavolta non riesce a facilitare e a fluidificare. E anche questa è una stranezza. Superabile però, come tutte le altre di questa vicenda. C’è da dire che spesso le proteste di piazza delle cosiddette élites hanno avuto le sue positività. Basti pensare alle marce per una fisco giusto, contro governi di ogni colore; o alle ribellioni degli imprenditori meridionali contro le mafie; o a quel corteo di migliaia di commercianti e imprenditori che è sfilato a Pisa nel novembre del 2016 per segnalare il dramma dell’illegalità, dell’immigrazione clandestina e dell’insicurezza che attanaglia quella città e che avrebbe portato la Lega al trionfo nelle elezioni del 4 marzo. 
Però, il ricorso alla piazza va sempre maneggiato con attenzione. Specialmente in tempi di populismo. L’atteggiamento da evitare è quello della sterile agitazione, ma una classe dirigente degna di questo nome lo sa benissimo. 
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