La Suprema Corte ha infatti stabilito «l'immediata applicabilità» ai procedimenti pendenti, compresi quelli con sanzione già determinata, delle norme antiriciclaggio introdotte nel 2017 che sono più favorevoli ai trasgressori rispetto al passato perchè prevedono un tetto alle multe, molto ridotte, da un minimo di tremila euro a un massimo di 300mila euro per i fatti più gravi. Con la possibilità, inoltre, di ottenere sconti in base alla valutazione di circostanze attenuanti, come il non aver tratto profitto dall'elusione o il trovarsi in cattive situazioni economiche.
In base alle norme precedenti, invece, le sanzioni per non aver segnalato all'Ufficio Cambi le operazioni sospette variavano dall'uno al 40% dell'importo dell'operazione non segnalata, senza indicazioni di criteri per il massimale della multa. Con questa decisione, depositata ieri nella sentenza 20647 e 20648 della Seconda sezione civile, i supremi giudici hanno accolto il ricorso di due ex amministratori delegati della società Intrafid, fiduciaria del gruppo bancario della Popolare di Intra e Verbania poi confluito in Veneto Banca, condannati insieme ai presidenti del consiglio di amministrazione, a pagare in solido con la società una sanzione amministrativa da oltre 6milioni e 700 mila euro. I due, Gloria Morandi e Marco Di Giovanni, difesi da Fabrizio Hinna Danesi, ex sostituto Pg in Cassazione e magistrato antimafia, hanno chiesto una nuova determinazione della sanzione con esclusione dei sei zeri.
Il ricorso della Morandi ha fatto riferimento alle sue «precarie condizioni economiche», al fatto che non aveva precedenti e che non aveva tratto vantaggi personali, per chiedere l'applicazione delle nuove norme del 2017, «con determinazione della sanzione in maniera prossima al minimo edittale». Gli "ermellini" hanno incaricato la Corte di Appello di Milano, che nel 2014 aveva inflitto la sanzione milionaria ai vertici di Intrafid, di ricalcolare le multe che, una cosa è certa, in nessun caso potranno ammontare a più di 300mila euro. L'Avvocatura dello Stato, per conto del Mef, pur prendendo atto che la riforma del 2017 «è espressiva del principio del "favor rei" (che sinora non aveva avuto riconoscimento nel campo delle sanzioni amministrative in esame)» aveva proposto, secondo gli "ermellini", «una lettura restrittiva», sostenendo che «la retroattività della norma sanzionatoria più favorevole sia condizionata alla mancata conclusione del procedimento sanzionatorio».
In sostanza, per la difesa erariale, se la sanzione era già stata irrogata, l'importo non si poteva ridurre anche se il procedimento giudiziario non era ancora concluso. La Cassazione non ha sentito ragioni e ha applicato il "favor rei" a tutto campo dicendo inoltre che se è vero che la riforma non prevede costi per le finanze pubbliche è tuttavia da escludere che si possano includere nel bilancio dello Stato i proventi di multe ancora oggetto di causa.
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