I tutor italiani di Fca/ Benedé, l’operaio di Pomigliano che insegna agli americani

di Diodato Pirone
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Giovedì 26 Luglio 2018, 00:08
A Pomigliano lo chiamano “Benedé”, a Detroit “Benny”. Non vuole che si scriva il suo cognome ma si dichiara di nazionalità italiana(«Veramente della Repubblica di Procida», ride) e di professione dice d’essere «operaio globale» della Fca. Da tre mesi, infatti, questo quadro tecnico della vecchia Fiat, uno dei 4.000 lavoratori di Pomigliano, ogni 15 giorni parte da Napoli per gli Usa. La sua missione? Insegnare agli operai americani, affiancandoli sulle loro linee di montaggio, come si assembla una automobile con standard di qualità giapponesi.

Benedetto-Benny è uno dei più eclatanti testimonial dell’enorme trasformazione del lavoro introdotta in Fiat dal ciclone Marchionne. Chi avrebbe mai detto che un lavoratore di Pomigliano, fabbrica sotto il Vesuvio che sforna una Panda al minuto ma di appena 800 chili di peso, avrebbe fatto da tutor ai suoi colleghi yankees dell’enorme stabilimento di Sterling Heights, in Michigan, che fabbrica 500.000 poderosi pick up Ram 1500, furgoni cassonati da due tonnellate e mezzo?

«Eppure io e una squadretta di miei colleghi di Pomigliano, operai specializzati, team leader e quadri, facciamo la spola con Detroit», spiega Benedetto. Domanda difficile: ma che significa esportare in America un pezzo di lavoro “made in Italy”? «La fabbrica americana è nuova di zecca - sospira - eppure stanno avendo problemi a far decollare la produzione. Noi li aiutiamo a ridurre la fatica e al tempo stesso sveltire alcune operazioni e a impegnarsi come un collettivo. Cose mica facili da mettere in pratica».

Chi si intende di fabbrica la chiama «trasferimento della sapienza operaia». Altri parlano di schiavismo globalizzato. Fatto sta che in Fiat tutti sostengono che gli stabilimenti Fca italiani funzionano meglio di quelli americani e qualcuno si spinge ad affermare che ora le nostre fabbriche hanno poco da invidiare anche a quelle più blasonate della Bassa Sassonia. Pomigliano, anche se lo sanno in pochi, nel 2012 vinse il premio “lean”, a giuria tedesca, come migliore fabbrica d’Europa.

Marchionne, con l’aiuto di Stephan Ketter, l’ingegnere tedesco-brasiliano capo di tutto il manufacturing Fca, ha potuto realizzare questo salto di qualità introducendo in tutte le fabbriche del gruppo un sistema unico di organizzazione del lavoro che si chiama World Class Manufacturing (Wcm). Si tratta di 20 “indicatori” che misurano la qualità del lavoro e del prodotto di ognuno dei circa 150 stabilimenti del gruppo. Per un miracolo positivo della globalizzazione i dipendenti Fca, dai direttori all’ultimo assunto sulla linea di montaggio, in tutto il mondo sono costretti a parlare lo stesso linguaggio e sono valutati sullo stesso standard. E così, contrariamente a quello che si crede, negli anni il Wcm è diventato un potente strumento di diffusione nel globo della qualità del lavoro italiano. La fabbrica di Melfi, in Basilicata, ad esempio, ad un certo punto si è riempita di operai brasiliani che venivano a imparare i segreti per il miglior montaggio della Jeep Renegade che oggi assemblano a casa loro.

Il Wcm ha cambiato non solo il lavoro ma il profilo operaio anche nella Torino capitale della Fiat che fu. «Ovviamente tante cose sono da migliorare – spiega Claudio Chiarle, segretario Fim-Cisl di Torino – Ma alcuni cambiamenti sono impressionanti: ora i direttori di fabbrica non sono più personaggi irraggiungibili che girano per le linee con la grisaglia e lo sguardo indagatore ma uomini che parlano con altri uomini e vestono la stessa tuta degli operai. E il bello è che gli operai con quella tuta, di buona qualità, spesso vanno a fare la spesa al supermercato. Non sono più fantasmi, insomma. E sembrano mostrare orgoglio per il loro ruolo sociale: fabbricano auto costosissime». Piccoli gesti che raccontano una grande svolta culturale. Alla mensa della Maserati di Grugliasco, ad esempio, i dipendenti possono optare per più diete ipocaloriche. E da lunedì, e fino alla chiusura estiva, a costo di sfidare le accuse di paternalismo, chi vuole può fermarsi altri 10 minuti. Non per gli straordinari ma per chiacchierare coi colleghi gustando un gelato artigianale offerto da un’azienda fino a ieri guidata da un manager che odiava le cravatte.

Benedetto ma tu ci hai mai parlato con Marchionne?, chiedo. «Sì, una volta sola – risponde – Venne per il primo sabato di lavoro a Pomigliano perché voleva ringraziarci uno a uno d’aver accettato la sfida. Mi guardò dritto negli occhi e mi disse: Benedé, tu sei importante».
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