«Da ministro ho detto a Mimmo che è una sentenza che va rispettata ma per noi non deve essere un alibi», ha raccontato il vicepremier. «Sono stato qui - ha aggiunto - prima di tutto per dare un supporto umano ad una persona della mia città che stava per compiere un atto rischioso». «Sto andando in ospedale per dirgli che lo Stato c'è», aveva detto prima di arrivare.
La battaglia di Mimmo Mignano, con alle spalle altre due cause per licenziamento, assieme a Marco Cusano, Antonio Montella, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore, aveva avuto una ribalta anche al Festival di Sanremo di quest'anno, quando lo Stato Sociale si era presentato sul palco dell'Ariston con il nome dei cinque appuntati sul rever della giacca in segno di solidarietà. Dopo il reintegro per due anni gli operai sono stati tenuti fuori dall'azienda, benché a salario pieno: «una vita in vacanza» forzata, appunto, come cantato dai ragazzi della band, che gli operai sono andati a ringraziare.
Nei giorni della contestazione nel giugno del 2014 il clima era pesante a Pomigliano. Un'operaia in cassa integrazione si era suicidata un paio di settimana prima, un altro operaio suicida aveva lasciato una lettera in cui riconduceva le ragioni della sua scelta alla precarietà lavorativa. I cinque, ritenendolo responsabile, avevano inscenato con un manichino il suicidio di Marchionne davanti al polo logistico di Nola con tute macchiate di sangue, distribuendo un finto «testamento» dell'ad. Una protesta simile si era ripetuta il 10 giugno davanti ai cancelli dello stabilimento di Pomigliano con il «funerale» di Marchionne. Le principali sigle sindacali si erano dissociate. Una decina di giorni dopo l'azienda aveva disposto il licenziamento, confermato un anno più tardi dal Tribunale di Nola.
La Corte d'appello di Napoli, invece, nel 2016 aveva disposto il reintegro, ritenendo legittimo, per quanto aspro, «l'esercizio del diritto di critica» tramite «una rappresentazione sarcastica priva di violenza».
Secondo la Cassazione, però, neppure la satira «può esorbitare la continenza» con l'attribuzione di qualità «disonorevoli», «riferimenti volgari» e «infamanti». «Le modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori - scrive la sezione lavoro della Suprema Corte - hanno travalicato i limiti di rispetto della democratica convivenza civile», con «un comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro». Ricorda che la libertà dell'attività sindacale non può travalicare i limiti del cosiddetto «minimo etico». E ravvisando un errore di diritto nella decisione d'appello, ha deciso nel merito la causa confermando i licenziamenti.
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