E' la prima volta che Andrea Camilleri diviene attore di un suo testo, e che abbia scelto di farlo a questo punto della sua vita impersonando l’indovino cieco assicura alla circostanza un carattere memorabile. Camilleri sceglie Tiresia e quel che di questo personaggio ci ha trasmesso la letteratura, la filosofia, la poesia, e lo elegge a pretesto - come già fece Borges con molti dei suoi temi prediletti - per investigare la cecità e la vocazione a raccontare storie.
Le infinite manipolazioni subite dalla straordinaria figura dell’indovino attraverso epoche e generi, costituiscono per Camilleri uno specchio in cui riflettersi, e attraverso cui rileggere il senso ultimo dell’invenzione letteraria. L’indovino che compare nell’Odissea, il profeta reso cieco da Giunone (o da Atena?), punito perché rivelava i segreti degli dei, è il protagonista di una conversazione solitaria, nel corso della quale il più grande scrittore italiano, meditando ad alta voce sulla cecità e sul tempo, sulla memoria e sulla profezia, parlerà del suo viaggio nella vita e nella Storia.
Dice Andrea Camilleri: «Noi tutti siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo: così scriveva Borges, e questo è vero per tutti, ma ancor di più per un cieco.
Da quando non vedo più, io vedo meglio, vedo con più chiarezza. Nella mia gioventù siciliana, i miei compagnucci contadini accecavano i cardellini perché sostenevano che da ciechi cantassero meglio».
© RIPRODUZIONE RISERVATA