Noi e l’Europa/ Affidabilità, poi la sfida sulle regole

di Osvaldo De Paolini
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Martedì 22 Maggio 2018, 00:42

Sostiene l’onorevole Luigi Di Maio che «lo spread non è indicativo della felicità degli italiani» e che altro non è che un «gioco dell’establishment spaventato da questo governo perché sperava che tutto restasse com’era». Tanto è vero che «un anno fa lo spread era 50 punti più alto, oggi sale e sembra che stia crollando tutto». Ha ragione Di Maio: un anno fa il differenziale tra Btp e Bund tedeschi ruotava attorno a quota 210.

Mentre ieri ha toccato di slancio quota 190 (e 210 era un livello che non si vedeva da tre anni). Dunque, di che cosa dovrebbero preoccuparsi gli italiani? Raccontata così, la questione potrebbe chiudersi con un’alzata di spalle. Il leader dei Cinquestelle però forse non ricorda che un anno fa di questi tempi la scena mondiale era dominata da una pericolosa tensione geopolitica, con al centro lo scontro tra Stati Uniti e Corea del Nord da una parte e il dramma siriano in pieno svolgimento dall’altra. Si era inoltre diffusa una preoccupata attesa per l’esito delle elezioni francesi, con Marine Le Pen che minacciava, in caso di vittoria del suo partito, di avviare la Francia verso una rapida uscita dall’euro.

Pertanto non solo l’Italia era sotto pressione, ma un po’ tutti i rendimenti dei bond sovrani europei si erano impennati verso l’alto. Nonostante ciò, il rendimento del Btp decennale si era comunque fermato sotto quota 2,30%, ben al di sotto dei livelli di ieri.
A ciò bisogna aggiungere che per i mercati conta, molto più dei numeri assoluti nei quali si esprime lo spread, la tendenza della curva: se essa volge verso l’alto, denuncia preoccupazione per l’affidabilità del debito e dunque prevalgono le vendite; se invece è piegata verso il basso, vuol dire che il debito è più affidabile e quindi prevalgono gli acquisti. Con la conseguenza che i rendimenti si riducono e con essi la spesa per interessi, con beneficio sia dei conti pubblici sia del livello del debito stesso. L’esatto contrario di ciò che sta accadendo in questi giorni e che, viste le premesse, potrebbe innescare una spirale perniciosa.

Altro che gioco dell’establishment: certi segnali (in meno di un mese il differenziale è balzato di quasi 80 punti, 26 solo ieri) non vanno sottovalutati perché ci vuole poco, quando si è seduti su un debito monstre di oltre 2.300 miliardi, per far degenerare la situazione. Per quanti anni siano passati, negli italiani è ancora fresca la memoria dei picchi di tensione raggiunti in poche settimane alla fine del 2011 e a cavallo del 2012. E se è vero che gran parte delle nostre imprese è finalmente bene orientata verso una crescita sostenibile, ancora troppo fragile è la ripresa economica a livello di sistema per rappresentare un argine efficace all’eventuale violento attacco della speculazione più aggressiva. Che per il momento si è mossa con circospezione, probabilmente temperata dagli acquisti di Btp che ogni giorno la Banca centrale europea realizza in base al programma di Quantitative easing. 
Ma quando l’azione degli uomini di Francoforte dovesse cessare (settembre non è lontano), solo la convinzione che alla guida del Paese vi è un governo responsabile - e conscio dei rischi di una deviazione esasperata dalle linee di Maastricht - potrebbe fermare l’azione delle fameliche broker house internazionali.

Naturalmente, ben altra valutazione si avrebbe se dopo aver dimostrato di essere affidabile, il neonato governo ingaggiasse con Bruxelles una battaglia solare per modificare le regole dell’Unione che in questi anni si sono rivelate inadeguate, quando non punitive per i partner più deboli, e per disboscare la burocrazia costosa e inefficiente che ha trascinato una parte del Paese negli acquitrini paludosi dell’inerzia.
Ciò detto, mai sottovalutare i segnali del mercato, può costare molto caro. E se è vero, come sostiene Di Maio, che lo spread non è un indicatore della felicità degli italiani, se male apprezzato può però diventare un indicatore di infelicità.
 
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