Tragedia viadotto A14, il negoziatore: «La bimba era sotto choc, è volata giù senza reagire»

Tragedia viadotto A14, il negoziatore: «La bimba era sotto choc, è volata giù senza reagire»
di Cristiana Mangani
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Martedì 22 Maggio 2018, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 12:23

Sette ore e mezza di trattativa, sapendo già che sarebbe stato inutile. Fausto Filippone, il papà assassino, aveva deciso sin dal primo momento che doveva finire nell’unico modo possibile, attraverso l’espiazione e la morte. Il professor Massimo Di Giannantonio, ordinario di psichiatria all’università di Chieti, era a un metro da lui, su quel cavalcavia, insieme con il maresciallo dei carabinieri Alessio D’Alfonso: hanno tentato ogni strada per convincerlo a non saltare giù. «Ma la sua capacità di ascoltare era molto ridotta - spiega lo psichiatra - In quel momento pensava solo all’enormità del gesto che aveva compiuto e a come trovare il coraggio per finirla».
E si è buttato.

Professore quali le ragioni di questa ennesima strage familiare?
«Ha detto che era un uomo felice e che aveva una vita serena, ma che qualcosa era cambiata 15 mesi fa, quando ha avuto un forte trauma. Non ha detto altro, non ha aggiunto quale sia stato l’evento distruttivo».

Un gesto, il suo, che è sembrato premeditato. Ha portato con sé la figlia di 12 anni, l’ha uccisa lanciandola dal ponte e lei non ha neanche tentato una reazione. Come è possibile?
«Quando la pattuglia della Polizia stradale è arrivata sul posto ha visto la bambina sospesa nel vuoto accanto a lui, ma era come stordita, in totale stato di choc. In piedi sul vuoto, con una condizione emozionale di tipo inibitorio. E quando lui l’ha spinta giù non ha fatto un urlo, niente».

Anche in questo caso la strage porta la firma di un uomo normale. Ieri il questore di Chieti ha detto che Filippone non aveva problemi mentali.
«In realtà, quando esiste una pulsione suicidaria così violenta, così forte, che si rivolta contro gli affetti più cari e diretti e si carica con questa autodistruttività contro se stessi, siamo nel campo della patologia psichiatrica più estrema, sulla quale l’intervento terapeutico è in qualche modo inefficace. La cosiddetta normalità di questa persone è una normalità apparente. Non appena l’ho visto, ho avuto subito la sensazione che l’epilogo fosse già scritto».

Che parole avete usato per tentare di convincerlo?
«Il tentativo viaggiava su due strade: a lui non era arrivata la notizia della certezza della morte della moglie, e abbiamo cercato di fargli credere che vi potessero essere delle speranze che fosse ancora viva. E abbiamo fatto lo stesso per la bambina. “Torna indietro, vieni qui - abbiamo provato - Non perdiamo altro tempo prezioso, potremmo andare a salvare la tua famiglia”. Ma lui non ci ha mai fatto avvicinare».

Non è stato possibile tentare di soccorrere la bambina. Si è reso conto che l’aveva uccisa?
«La coscienza di avere ucciso la propria figliola era una coscienza compatibile con questo gravissimo grado di alterazione mentale. Proibiva a chiunque di avvicinarsi per accertarsi delle condizioni cliniche della piccola. Gli abbiamo detto se potevamo chiamare un’ambulanza, far arrivare un rianimatore, che forse c’era qualche speranza. Ma lui urlava: “Non vi avvicinate, mi butto”».

È arrivata anche la sorella sul posto, ha potuto fare qualcosa?
«Abbiamo preferito non fargliela vedere. L’incontro avrebbe potuto esasperare la situazione. Alla sorella avrebbe certamente voluto chiedere scusa per il gesto e poi buttarsi».

Si è detto che il suo stato di salute sia peggiorato dopo la morte della mamma avvenuta qualche mese fa. Ha parlato di lei?
«Non ha fatto alcun accenno alla madre, neanche una parola».

Quando avete capito che stava per uccidersi?
«È stato un dialogo sostenuto con i suoi tempi: interrompeva, non rispondeva, non interagiva. Poi negli ultimi venti minuti ha cominciato a guardare nel vuoto. Guardava giù e guardava noi. E poi ancora giù e di nuovo noi. Vedevo che stava valutando la possibilità di acquisire il coraggio per fare il gesto definitivo. Era come un giudice che aveva emesso nei suoi confronti una condanna capitale. Il numero delle ore sospeso a quella rete era il numero delle ore che il detenuto passa nel braccio della morte: gesto commesso, condanna pronunciata, occorreva soltanto stabilire il momento nel quale agire. E a quel punto abbiamo capito che non c’era più niente da fare».

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