Data questa situazione, sottolinea la Suprema Corte - «resta dimostrato, quindi, che Spada si avvalse della forza di intimidazione promanante dall'associazione malavitosa imperante sul territorio, nota come clan Spada, ben presente nella mente dei giornalisti e ben nota agli abitanti del luogo, tant'è che alla stessa si fece riferimento, ripetutamente, nel corso dell'intervista, come soggetto collettivo in grado di influenzare le decisioni politiche assunte nell'ambito del quartiere».
All'avvocato Angelo Staniscia, che contestava l'aggravante mafiosa sostenendo che Roberto Spada «non era mai stato condannato o inquisito per associazione mafiosa», la Cassazione replica che «poco importa che l'esistenza di un “clan Spada” non sia stata ancora accertata giudiziariamente, nè che sia indimostrata, allo stato, la partecipazione di Spada Roberto allo stesso».
«Ciò che conta per la sussistenza dell'aggravante - prosegue il verdetto - è che una associazione malavitosa, avente le caratteristiche di cui all'art. 416bis cp, sia stata evocata e che della stessa l'indagato si sia consapevolmente avvalso per la perpetrazione dei reati che hanno determinato» la sua carcerazione. I supremi giudici ricordano che più di un collaboratore di giustizia ha parlato del clan Spada e del fatto che Roberto Spada, detto Roberto “lo zingaro”, vi partecipa. Spada deve restare in carcere non solo per la gravità dell'aggressione e il contesto mafioso, ma anche perchè è «non è in grado di contenere le pulsioni aggressive che maturano in lui finanche nelle situazioni di semplice disagio». Il processo a Spada è in corso davanti a Roma, la prossima udienza è per il 13 giugno e il pm Giovanni Musarò ha disposto l'accompagnamento coatto di un «teste riluttante»
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