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di Luca Cifoni

Il paradosso del "posto fisso" che non è calato in 25 anni

Il paradosso del "posto fisso" che non è calato in 25 anni
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Mercoledì 11 Aprile 2018, 16:09 - Ultimo aggiornamento: 17:56
Che "il posto fisso non esiste più" lo si sente dire da almeno venti anni; di certo nell'ultimo decennio, segnato dalle ferite della recessione, questa valutazione è stata più che mai condivisa e percepita come vera. A prima vista però non è facile trovare una traccia evidentissima del fenomeno nelle statistiche sul lavoro, se per "posto fisso" si intende l'occupazione dipendente a tempo indeterminato. O meglio, la crescita dei contratti precari o comunque atipici (in particolare di quelli di lavoro dipendente a termine) è ben visibile. Ma se si guarda nello specifico proprio agli occupati a tempo indeterminato, si può constatare che la loro incidenza sul totale delle forze di lavoro (ovvero le persone che hanno un'occupazione più quelle che la cercano) non è cambiata moltissimo negli anni e che il livello attuale coincide con quello del 1993. Venticinque anni fa erano quasi 13 milioni e 700 mila, pari al 57,6 per cento delle forze di lavoro, nella media del 2017 sono stati conteggiati dall'Istat in 14 milioni e 100 mila, ovvero il 57,7 per cento della platea complessiva di occupati e disoccupati (che nel frattempo è cresciuta come la popolazione). In mezzo c' è un andamento in saliscendi ma con variazioni piuttosto contenute. Il peso del posto fisso è sceso sotto il 56 per cento nella seconda metà degli anni Novanta, per poi risalire gradualmente fino a superare il 60 sul limitare della grande crisi del 2008. Poi è iniziata una nuova discesa, interrotta nel 2015 da una moderata inversione di tendenza.



I dati vanno letti con qualche cautela: intanto perché dal 2004 c'è stata una discontinuità metodologica nell'indagine sulle forze di lavoro, e dunque le serie storiche precedenti sono quelle ricostruite dall'Istat. Poi perché la platea della popolazione "attiva" al di là della numerosità si è nel frattempo modificata al suo interno a seguito dei cambiamenti demografici. Detto questo, l'andamento appare comunque abbastanza chiaro. Come si spiega l'apparente divario tra le cifre e la percezione comune? Intanto si possono notare due fenomeni: rispetto al 1993 è cresciuta molto l'incidenza dei dipendenti a termine (dal 6,6 al 10,5 per cento, sempre in rapporto alle forze di lavoro) e contemporaneamente è calata vistosamente la presenza di lavoratori "indipendenti" (dal 26,1 al 20,6%): se la prima tendenza conferma in modo significativo l'avvenuta precarizzazione di una parte del mondo del lavoro, la seconda sembrerebbe dare indicazioni in senso contrario.

Molto probabilmente l'aspetto a cui guardare con più attenzione è la qualità dell'occupazione a tempo indeterminato, e quindi dell'attuale "posto fisso". Un paio di indizi emergono chiaramente anche dalle statistiche: il primo è l'incremento del lavoro dipendente a tempo parziale (che spesso è "involontario"), la cui incidenza è più che raddoppiata rispetto a 25 anni fa. Il secondo sta nell'allargamento del settore dei servizi del quale fanno parte realtà molto diversificate, alcune delle quali caratterizzate da retribuzioni basse e minori garanzie; mentre soprattutto negli anni delle recenti recessioni si sono ridotti gli occupati nell'industria.
 
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