I dati vanno letti con qualche cautela: intanto perché dal 2004 c'è stata una discontinuità metodologica nell'indagine sulle forze di lavoro, e dunque le serie storiche precedenti sono quelle ricostruite dall'Istat. Poi perché la platea della popolazione "attiva" al di là della numerosità si è nel frattempo modificata al suo interno a seguito dei cambiamenti demografici. Detto questo, l'andamento appare comunque abbastanza chiaro. Come si spiega l'apparente divario tra le cifre e la percezione comune? Intanto si possono notare due fenomeni: rispetto al 1993 è cresciuta molto l'incidenza dei dipendenti a termine (dal 6,6 al 10,5 per cento, sempre in rapporto alle forze di lavoro) e contemporaneamente è calata vistosamente la presenza di lavoratori "indipendenti" (dal 26,1 al 20,6%): se la prima tendenza conferma in modo significativo l'avvenuta precarizzazione di una parte del mondo del lavoro, la seconda sembrerebbe dare indicazioni in senso contrario.
Molto probabilmente l'aspetto a cui guardare con più attenzione è la qualità dell'occupazione a tempo indeterminato, e quindi dell'attuale "posto fisso". Un paio di indizi emergono chiaramente anche dalle statistiche: il primo è l'incremento del lavoro dipendente a tempo parziale (che spesso è "involontario"), la cui incidenza è più che raddoppiata rispetto a 25 anni fa. Il secondo sta nell'allargamento del settore dei servizi del quale fanno parte realtà molto diversificate, alcune delle quali caratterizzate da retribuzioni basse e minori garanzie; mentre soprattutto negli anni delle recenti recessioni si sono ridotti gli occupati nell'industria.
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