Bob Dylan torna a Roma per tre concerti: nuove canzoni e una lunga storia da raccontare

Bob Dylan a Berlino Est nel 1987
di Fabrizio Zampa
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Sabato 31 Marzo 2018, 21:12 - Ultimo aggiornamento: 3 Aprile, 15:07

Ne avrete sentito parlare fino alla nausea per il Nobel che gli è stato conferito e alla cui cerimonia di assegnazione è andata Patti Smith, ma un ritorno del vecchio Bob Dylan (Robert Allen Zimmerman, da Duluth, Minnesota, nato il 24 maggio 1941, l’anno dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, 38 album alle spalle e oltre 130 milioni di copie vendute, 77 anni il prossimo 24 maggio) è sempre appetitoso. L’ultima volta era venuto in Italia nel 2015, ma nel frattempo ha inciso tre album (Fallen Angels nel 2016 e Trouble No More, del 2017, nei quali ha reinterpretato classici della canzone americana, compresi quelli resi celebri da Frank Sinatra, nonché Triplicate, il suo primo disco triplo, sempre nel 2017), Obama gli ha conferito la Medal of Freedom e ha vintouna miriade di Grammy Awards, tanti altri riconoscimenti e il già citato Premio Nobel per la letteratura.
 

 

Come dire che riascoltare il folksinger con la sua band, per di più in un triplo live romano al Parco della Musica (da mercoledì 3 a giovedì 5 aprile, Sala Santa Cecilia, ore 21), è un appuntamento da segnare sul nostro calendario, anche perché potremmo goderci diverse canzoni nuove, insieme ai suoi immancabili e amatissimi classici e addirittura a un Autumn Leaves (Le foglie morte, con il testo di Jacques Prévert, che tutti hanno riletto e riproposto, dallo storico pianista Errol Garner nello splendido live Concert by the Sea del lontano 1955, a altre centinaia di star della musica internazionale) che sta offrendo in questo giro di concerti come omaggio a Yves Montand, scomparso nel 1991.

Sono in molti a sostenere che il tour di Bob sarà indimenticabile, e può anche darsi che abbiano ragione, anche se le nostre esperienze (l’abbiamo sentito in decine di live, compreso quello che fece a Bologna nel settembre 1997 insieme a Lucio Dalla, Adriano Celentano, Gianni Morandi, Michel Petrucciani e altri artisti, davanti a Giovanni Paolo II, il leggendario Papa Wojtyla, e a una platea di 250 mila giovani) ci suggeriscono che un concerto di Dylan è sempre una sorpresa, negativa o positiva che sia, come potrete leggere alla fine di queste righe nel pezzo che scrivemmo trentun anni fa da Berlino Est, quando c’era il Muro e i ragazzi di lassù aspettavano quel mitico rappresentante del rock e sognavano di vivere con lui un minuscolo pezzo di quella rivoluzione che non erano mai riusciti a fare.
 
Dylan è sempre stato, per chi fa il nostro mestiere, un osso duro. Una vita fa diede un concerto all’Arena di Verona e l’organizzatore, lo scomparso e formidabile David Zard, riuscì a strappargli, vero miracolo, una conferenza stampa. Siamo rimasti per mezz’ora seduti davanti a lui ma il risultato fu zero: noi facevamo domande e lui rispondeva con una serie di non so, non mi ricordo, non ho idea, o più spesso con una semplice scrollata di spalle. Un anno più tardi diede un concerto a Modena, alla Festa dell’Unità, e, conoscendo il suo modo di fare, una sera prima andammo al suo albergo, ci intrufolammo nel bar e pian piano ci mettemmo a cantare con gli Heartbreakers, la band guidata da Tom Petty, che intorno a un pianoforte bevevano qualche drink e facevano musica tanto per passare la serata.

A un certo punto arrivò lui, con una felpa grigia e il cappuccio che gli nascondeva il volto, si sedette silenzioso in un angolo, noi facemmo finta di non averlo visto e continuammo a canticchiare col gruppo. Fu proprio il vecchio Bob, dopo una mezz’ora, a chiederci se saremmo andati al concerto e noi gli ricordammo che la volta precedente, a Verona, la band non era un granché. «Per carità, Tommy e i suoi sono bravissimi, niente a che fare con Verona», disse subito lui. Cominciammo a chiacchierare, io nel ruolo del fan e lui in quello della star, e ne uscì fuori la prima e ultima intervista con sua maestà Bob che noi, vigliaccamente, scrivemmo quella stessa notte.

In attesa di sentire Dylan & band, qui di seguito c’è la scaletta dei suoi ultimi concerti, roba di pochi giorni fa. Difficile dire quanto sia attendibile, però è tutto quello che abbiamo e magari ha qualche riscontro con la realtà. Eccola:
 
Things Have Changed
She Belongs to Me
Beyond Here Lies Nothin’
What I’ll do
(Irving Berlin)
Duquesne Whistle
Melancholy Mood
(Frank Sinatra)
Pay in Blood
I’m a Fool to Want You
(Frank Sinatra)
Tangled Up in Blue
   
High Water
(for Charley Patton)
Why Try to Change Me Now (Cy Coleman)
Early Roman Kings
The Night We Called It a Day
(Frank Sinatra)
Spirit on the Water
Scarlet Town
All or Nothing at All
(Frank Sinatra)
Long and Wasted Years
Autumn Leaves
(Yves Montand)
 
Bis:
Blowin’ in the Wind
Love Sick
Ballad of a Thin Man

 
Adesso torniamo indietro al 2009, quando anche Dylan sembrò aver fatto un viaggio all’indietro nel tempo   e arrivò a quello che allora si chiamava ancora Palasport con un live nel quale aveva ritrovato il buon vecchio blues, quello vero alla Willie Dixon (grande musicista del Mississippi), e le sonorità acustiche di una volta (ma potenti e assai ben amplificate, con una bella spruzzata di rock), aveva recuperato lo zydeco (il folk meticcio che si suonava nella Louisiana creola) e sfoggiava una voce robusta, roca e meno nasale del solito, con l’armonica che non si risparmiava, le chitarre taglienti quand’è necessario, la ritmica robusta e il pubblico e il gruppo che pendevano dalle sue labbra.
Fu un concerto bello anche se non leggendario, lungo rispetto al suo solito (un’ora e tre quarti o giù di lì), ricco di un repertorio ormai storico, con il rock sempre pronto a spuntare dietro l’angolo, qualche assaggio dell’ultimo album e un pugno di hit di fronte ai quali non si può far altro che alzare bandiera bianca e arrendersi all’ammirazione, alla memoria e ai ricordi del’epoca in cui lui era quasi l’unico (con Joan Baez e un pugno di altri eroi)  a battersi contro tutto quello che non funziona.

Ecco, quel ricordo ci porta ancora indietro fino al lontano 1987, al suo concerto dato, lo ripetiamo, a Berlino Est quando c’erano ancora il Muro, i Vopos che controllavano la situazione, la gente che moriva per scappare all’Ovest e via di questo passo. Era il periodo in cui un Dylan ancora quarantaseienne aveva voglia di cambiare, considerava il suo sound vecchio e da rinnovare, e si presentò al di la del Muro con un repertorio dal sapore diverso rispetto a quello che in un paese nel quale ascoltare le musicassette di musica americana era un’avventura illegale. Ci andammo e scrivemmo un pezzo che narrava un piccolo frammento di storia. Per noi è un ricordo che ci tocca il cuore, e lo trovate qui di seguito.
 
 
Berlino Est, 17 settembre 1987
 
BERLINO EST - Nell’enorme prato del Treptower Park, circondato da querce, faggi e cipressi e ancora umido della pioggia d’autunno, sono arrivati in centoventimila, forse di più se si contano i grappoli di gente arrampicata sugli alberi e le migliaia di persone rimaste fuori perché non sono riuscite a trovare un biglietto. Centoventimila ragazze e ragazzi di sedici, diciotto, vent’anni, con i problemi, le speranze, la voglia di vivere e l'entusiasmo della loro età. Centoventimila ragazze e ragazzi venuti a vedere un concerto rock come succede in ogni altra parte del mondo, ma con una ragione fondamentale in più, rispetto ai loro coetanei di ogni altra parte del mondo, cioè affollarsi in quel prato che ricorda tanto i tempi di Woodstock, quando la parola d'ordine era «pace, amore e musica»: è la loro prima volta, perche fino alla sera di questo giovedì 17 settembre 1987 non hanno mai vissuto una serata così.

È la prima volta nella loro vita che ascoltano dal vivo Bob Dylan, il rock-singer americano che canta da sempre la libertà e la speranza in un mondo migliore, e che per loro, forse più che per chiunque altro, è un simbolo e un punto di riferimento. E’ la prima volta nella loro vita che hanno la possibilità di partecipare a un evento cosi importante, il più grande raduno di giovani che la storia di Berlino Est ricordi e che ha un solo precedente, un concerto dei Barclay James Harvest (rockband ingiese, nome tuttavia assolutamente non paragonabile, per fama e statura, a quello mitico di Dylan) che nel luglio scorso riunì proprio nello stesso parco più di 40 mila spettatori. E’ la prima volta nella loro vita che migliaia e migliaia di Klaus, Ursula, Rolf, Christine, Axel, Gudrum, Margret, Ernst, Frieda, Gunther o Katrin si sentono uguali a milioni e milioni di altri ragazzi che hanno la loro stessa età, i loro stessi desideri, le loro stesse emozioni.

A Londra, a New York, a Parigi o a Roma quei centoventimila giovani non stupirebbero più di tanto. Ma vederli tutti insieme, liberi di sentirsi emozionati e felici, in questo parco di Berlino Est a neanche due chilometri in linea d’aria da quel Muro al di la del quale il rock è a disposizione di qualsiasi ragazzo che abbia voglia di prenderselo. sembra quasi incredibile. Parecchi di loro sono gli stessi che nel giugno scorso, mentre David Bowie e gli Eurythmics suonavano a pochi metri oltre il confine e il vento portava all'Est la loro musica, tentarono disperatamente di dare la scalala al Muro ma vennero respinti dai Vopos, che ne arrestarono una trentina. Per la prima volta adesso il rock è anche loro, e anche loro possono scaldarsi, urlare, battere le mani o svenire per la calca sotto al palcoscenico,  proprio come succede dovunque in Occidente.

A prima vista quel mare di giovani in blue jeans che si perde fino al limitare del bosco sembra uguale al pubblico che siamo abituati a vedere in tante occasioni del genere. Ma a guardarli da vicino si ha l'impressione di essere tornati indietro di almeno un decennio: è un oceano di eskimo, di vecchi giubbotti di pelle, di capelli lunghi, di occhiali rotondi alla John Lennon, di barbe sessantottine, di baffetti che a sedici anni non ne vogliono sapere di crescere e restano un'ombra di peluria sotto al naso. Ragazzi stile anni Settanta, pre-Madonna e pre-Michael Jackson, che hanno fatto del rock la bandiera del loro dissenso, che ascoltano sui loro registratori le musicassette che si sono procurati chissà con quale fatica, e che pur conoscendo abbastanza bene anche la musica più recente hanno di Bob Dylan un’immagine speciale e ben precisa: per loro è il carismatico autore e interprete di Blowing ln The Wind, Mr. Tamburine Man, The Times They Are A-Changin, l’eroe di un'epopea, l’americano le cui canzoni hanno varcato ogni confine per portare a tutti il famoso messaggio di pace e di amore, il rigoroso menestrello dell'altra America, il compagno ideale di un impossibile viaggio al di là di ogni Muro che si possa immaginare.

Così, quando alle 20.30, dopo aver ascoltato per più di un'ora i brani dell'ex-Byrd Roger McGuinn e l'onesto rock i roll di Tom Petty e degli Heartbreakers, Bob Dylan è salito sul palco ancora buio e ha attaccato When The Night Comes Fallin' from theSky, quei centoventimila cuori hanno avuto un sussulto, quelle duecentoquarantamila mani si sono alzate verso il cielo per applaudire e tutti si sono preparati a sentire il Dylan che avevano ascoltato sui loro dischi consumati dall'uso. L’entusiasmo vibrava nell'aria, si poteva tagliare col coltello, ma lentamente, lungo i 67 minuti durante i quali Dylan è restato in palcoscenico, si è trasformato non in noia o delusione, questo no, ma in qualcosa di abbastanza simile a quella sorta di malinconia che i brasiliani chiamano saudade. Il fatto è che la gente aveva voglia di un certo Dylan,  quello classico, mentre Dylan aveva voglia di un altro Dylan, quello attuale. Due voglie inconciliabili, purtroppo: secondo il nostro metro è stato un bel concerto, ma è anche stato un concerto assai avaro di concessioni in un'occasione in cui le concessioni andavano fatte, e a qualsiasi prezzo.

Vaglielo un po’ a spiegare, a quei ragazzi che hanno messo da parte i dieci marchi necessari e si sono guadagnati il prezioso biglietto con ore e ore di fila, che dai bei tempi Dylan è cambiato e che ora vive, giustamente per lui, in una dimensione musicale nella quale non c’è spazio per la nostalgia e il revival. Vaglielo un po’ a spiegare, a quei centoventimila cuori gonfi di gioia, che oggi Dylan non canta quasi nessuna delle sue canzoni più celebri, e quando le canta le propone in maniera quasi irriconoscibile perche i tempi sono altri e il suo feeling è un altro. Vaglielo a spiegare che Dylan ha chiuso con il periodo in cui si metteva li, chitarra e armonica, e faceva vivere al suo pubblico atmosfere ormai lontane e dimenticate.

E allora il concerto non ha avuto quell’impatto che avrebbe potuto avere.
Brani come Simple Twist Of Fate, l'm The Children, Pledging My Time, Tangled Up In Blue, I and I o Desolation Row sono stati applauditi, salutati da migliaia di fiammelle accese, da striscioni con la scritta «Bob We Love You» agitati sotto al palco, da palloncini lasciati salire in alto e anche da razzi e bengala sparati su nel cielo. Ma l’emozione di essere tutti lì a sentire il mitico Bob è diventata, man mano, solo l'emozione di essere tutti li. Non è mancato qualche momento magico, soprattutto quando in chiusura Dylan ha regalato alla folla Like A Rolling Stone e infine l'attesissimo Blowing In the Wind, che l'intera platea, gli occhi lucidi dalle lacrime, ha cantato in coro con lui. Ma è durato troppo poco, anche perche subito dopo l'ultima nota Dylan e i suoi hanno lasciato il palco, sono saliti al volo su tre pullman che aspettavano dietro le quinte col motore acceso e sono scomparsi dal Treptower Park scortati dalla polizia mentre la gente ancora applaudiva sperando nei bis.

Ci siamo arrivati, al Treptower Park, in treno, insieme a qualche centinaio di ragazzi (berlinesi dell'Ovest e soprattutto stranieri) venuti dal settore occidentale perl’occasione. Nel pomeriggio avevamo provato a entrare a Berlno Est attraverso il Check Point Charlie, classico punto di scambio di prigionieri e di agenti segreti in qualsiasi film di spionaggio che si rispetti, ma lì un gelido poliziotto con mitra in braccio, dopo aver saputo che volevamo passare per andare a sentire Bob Dylan, ci aveva fatto aspettare un'ora e mezza chiusi in macchina per poi negarci l’ingresso senza giustificazioni. Cosi abbiamo ritentato con la metropolitana, al varco di Friedrichstrasse, senza dire dove andavamo, e in cinque fermate siamo sbarcati sul luogo del concerto.

Luogo che lasciamo con lo stesso mezzo, nell’umido della notte, mentre Treptower Park si svuota lentamente di tutta quella vita.
Fa una certa impressione, dopo una serata del genere, andare a riprendere il treno camminando in senso opposto alla marea di gente che torna a casa. E fa una certa impressione, sul treno gremito che corre verso Friedrichstrasse, accorgersi che a ogni fermata siamo in meno. Alla quinta, quella del confine, nella nostra carrozza ci sono solo un ragazzo biondo con barba e eskimo e una ragazza carina in minigonna che si abbracciano stretti. Ma poi lui scende, riprende il treno che va a Est e lei si mette in fila con noi per passare a Ovest. Le è piaciuto il concerto? «Non lo so», risponde girandosi dall’altra parte per non far vedere che piange.

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