Cassazione, figlio cambia sesso: va mantenuto più a lungo

La sede della Cassazione
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Lunedì 12 Marzo 2018, 19:36 - Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 12:19
Cambiare sesso può dare diritto ad essere mantenuti dai genitori per un tempo ulteriore rispetto al limite di "tolleranza" verso i figli senza problemi di identità sessuale, ma un pò lenti a trovarsi un lavoro e a rendersi indipendenti. Per questo la Cassazione, tenendo conto del periodo di adattamento psicologico e sociale necessario a chi cambia sesso e deve "prendere le misure" alla nuova vita, ha ritenuto congruo l'assegno di 400 euro al mese stabilito dal Tribunale di Roma nel 2014 e versato per tre anni da un padre alla figlia, diventata un 'luì, per consentirle il rodaggio nella sua nuova realtà.

Al compimento del trentesimo anno del figlio, però, il padre si è stancato di mantenerlo e la Cassazione gli ha dato ragione sulla scia di quanto già fatto nel 2016 dalla Corte di Appello: tre anni, dopo la "rivoluzione" anagrafica, sono sufficienti, ad avviso degli 'ermellinì, per acclimatarsi nei nuovi panni e trovarsi un lavoro. Per la Cassazione, spiega il verdetto 5883 depositato oggi dalla Sesta sezione civile, con un «iter logico» basato su «fatti oggettivi», la Corte di Appello ha ritenuto che il figlio - a tre anni di distanza dal cambio di sesso - aveva ormai raggiunto una «capacità lavorativa potenziale cui non ha fatto riscontro una concreta ricerca del lavoro».

Pertanto, accogliendo il ricorso del padre, i magistrati di secondo grado hanno ritenuto che fosse giunta l'ora di mettere la parola "fine" al mantenimento. «In questo quadro - spiega la Suprema Corte - la decisione della Corte d'appello romana si basa sul presupposto del raggiungimento di una età superiore ai trent'anni e sull'assenza di deduzioni specifiche», da parte del figlio, «circa la ricerca del lavoro e gli eventuali ostacoli incontrati in tale ricerca, così come sul decorso di un considerevole lasso di tempo dal compimento dell'iter di adeguamento dei caratteri sessuali all'identità di genere e sull'assenza di specifiche deduzioni circa il permanere di una situazione di vulnerabilità psicologica e sociale tale da compromettere la ricerca del lavoro».

Nel verdetto, la Suprema Corte ricorda inoltre che i magistrati di merito hanno «riconosciuto» al figlio «una situazione di vulnerabilità e di difficoltà psicologica e relazionale legata al difficile processo di adeguamento della propria identità di genere con evidenti conseguenze sull'inserimento sociale e nel mondo del lavoro, e quindi nella acquisizione di una posizione di indipendenza».
Tuttavia, concludono gli "ermellini", «la considerevole distanza temporale dalla conclusione di questo processo sottrae» il figlio, «in difetto di prove contrarie, alla pregressa situazione di difficoltà». Dopo tre anni, insomma, è ora di darsi da fare.
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