Poste, il commissario fantasma e le buonuscite congelate

Poste, il commissario fantasma e le buonuscite congelate
di Andrea Bassi
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Lunedì 12 Marzo 2018, 17:14 - Ultimo aggiornamento: 2 Luglio, 18:17
In Italia ci sono 142 mila persone che quando sono andate in pensione hanno avuto un'amara sorpresa. E altre 76 mila che ci andranno nei prossimi anni e che dovranno fare i conti con lo stesso problema. In tutto circa 220 mila lavoratori. Eppure il loro caso, nonostante le migliaia di persone coinvolte, è poco noto. Trovare qualcuno, nelle istituzioni, che ne abbia contezza è infatti difficile. Perché l'inizio della vicenda risale ormai a quasi due decenni fa.

Per capire di cosa stiamo parlando, bisogna fare un salto indietro nel tempo, alla fine degli Anni Novanta, nel febbraio del 1998 per l'esattezza, quando si concluse il processo di trasformazione dell'Ente Poste in una società per azioni: Poste Italiane Spa. Tra i tanti problemi che si posero in quel passaggio ne emerse uno particolarmente spinoso: ossia se ai dipendenti privatizzati di Poste andasse applicato il Tfr, come per tutti gli altri lavoratori privati, o confermata la buonuscita pubblica che percepivano fino a quel momento e che era legata all'ultima retribuzione. Il rebus fu risolto così: i dipendenti, una volta andati in pensione, avrebbero percepito fino al 28 febbraio 1998 la buonuscita pubblica, e dal primo marzo successivo il Tfr.

Problema risolto? Per niente, almeno dal punto di vista dei lavoratori. Perché la buonuscita pubblica, ancora oggi, viene liquidata al momento del pensionamento, ma al valore del 1998. Nei fatti è congelata. Per i lavoratori il danno può ammontare anche a diverse migliaia di euro. Ebbene, da 20 anni un gruppo di dipendenti delle Poste cerca di ottenere, appellandosi ai giudici, una rivalutazione dei denari loro spettanti. Per ora invano.

I PASSAGGI
La vicenda, come Il Messaggero ha ricostruito, ha però dei risvolti inediti che vanno oltre la vicenda della buonuscita. In uno dei processi civili intentato da una ex dipendente delle Poste difesa dagli avvocati Giuliano Giacobini e Paolo Liberati del foro di Roma, e ora in fase di appello davanti alla Corte di Appello di Roma, le carte emerse raccontano infatti un'altra storia. Una storia nella storia. Ma andiamo con ordine. Quando un dipendente postale assunto prima del 1998 va in pensione, la buonuscita pubblica, viene erogata dalla Gestione commissariale Fondo Buonuscita Poste Italiane Spa. Di cosa si tratta? Prima della trasformazione in società per azioni delle Poste, le buonuscite le pagava l'Ipost, il vecchio ente previdenziale dei postali, poi confluito nell'Inps.

L'unica gamba rimasta in vita è, appunto, il Fondo Buonuscita. La legge dice - è tutt'ora in vigore - che doveva essere liquidato e gli attivi e i passivi trasferiti a Poste italiane che avrebbe dovuto provvedere a pagare direttamente le buonuscite. A quasi vent'anni da quella norma nulla di ciò è accaduto. Non è il massimo, ma non è la prima volta che accade in Italia. Il punto però, è un altro: non si riesce a trovare traccia del decreto di nomina dell'attuale commissario liquidatore, Domenico Serino, in carica ormai da ben 13 anni, ovvero dal lontano 2005.
Nel procedimento civile di primo grado davanti al Tribunale di Roma, il difensore della Gestione commissariale, l'avvocato Dario Buzzelli, su richiesta del giudice ha prodotto un decreto di nomina firmato dall'allora ministro delle Comunicazioni Mario Landolfi. Un documento senza protocolli e senza timbri, se non quello della stessa Gestione commissariale.

IL DOCUMENTO MANCANTE
Solo che, da un accesso agli atti fatto presso il ministero dello Sviluppo, quel decreto non risulta esistere negli archivi. Così come non risulta mai pubblicato sul bollettino ufficiale dello stesso ministero dove, invece, nel giorno e nella data di quel provvedimento risulta un altro atto che riguarda però tutt'altro argomento.

Il ministero dello Sviluppo, interrogato dal Messaggero, non ha saputo fornire una spiegazione. Il decreto di nomina del commissario Serino inoltre non risulta mai essere pervenuto alla Corte dei Conti per la registrazione. Non solo, la magistratura contabile non ha mai nemmeno effettuato una verifica sulla stessa gestione commissariale, sempre sfuggita ai suoi radar. Come è possibile?

«Io una copia del decreto ce l'ho», ha spiegato Serino al Messaggero, ammettendo però di non sapere indicare dove sia possibile estrarre l'originale. Qualcosa, secondo il commissario, potrebbe essere successo nel passaggio che ha portato il vecchio ministero delle Comunicazioni ad essere inglobato in quello dello Sviluppo economico. In altre parole, il ministero si sarebbe perso le carte della nomina. E alla domanda del perché il decreto non sia stato registrato alla Corte dei conti, la risposta è che non ce n'era bisogno perché «non comportava spese per lo Stato». In realtà non è così. Nello stesso documento in possesso del commissario, è infatti prescritta la registrazione.

LE GARE D'APPALTO
Inoltre la Gestione commissariale attualmente attinge, sia per il pagamento delle buonuscite dei dipendenti di Poste che per le sue spese, al capitolo 4306 del ministero del Lavoro, sul quale giacciono 70 milioni di euro. Quanto costi la gestione - che oggi conterebbe su una trentina di dipendenti e che bandisce diverse gare d'appalto per la manutenzione di un patrimonio immobiliare di diversi milioni di euro costituito da alcuni hotel e alcuni immobili per uffici - non è dato sapere. Il Messaggero ha chiesto di ottenere copia del regolamento di gestione, ma senza esito.
Insomma, la ratio della gestione commissariale si perde nelle nebbie. Tanto più che, sempre dalle carte reperite dagli avvocati Giacobini e Liberati, emergono altri due importanti elementi. Il primo commissario liquidatore del Fondo Buonuscita, Mario Di Bernardo, aveva comunicato a Poste italiane il trasferimento, dall'1 maggio 2001, degli attivi e passivi del Fondo, chiudendo di fatto la liquidazione. Non solo. Lo stesso Di Bernardo aveva ricevuto una «procura notarile» da Poste per erogare le buonuscite ai dipendenti che andavano in pensione. Poste, insomma, avrebbe i titoli per intestarsi i beni del fondo e in giudizio sostiene che Domenico Serino agisce essenzialmente in virtù della procura notarile conferita a Di Bernardo.

Dalla vicenda, dunque, emergono una serie di domande. Perché il patrimonio immobiliare del Fondo Buonuscita, i conti correnti e i passivi non sono mai stati trasferiti alle Poste? In che modo un commissario liquidatore si è trasformato in una gestione commissariale dotata di una struttura amministrativa a spese dello Stato? Perché negli archivi del ministero non c'è traccia del decreto di nomina del commissario Serino? Quello che manca, oltre al decreto originale, sono risposte convincenti.
 
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